Un Eden pagano
recensione di Monica Ferrando
dal numero di febbraio 2017
Ginevra Bompiani
MELA ZETA
pp. 123, € 13,50
Nottetempo, Milano 2016
“Neppure Crono, che tutto genera, può abolire ciò che è stato fatto, giusto o ingiusto che sia” dice Pindaro. La tecnologia che sulla pagina azzera l’errore cancellandone ogni traccia mima invece la soppressione di ogni cronologia. Il passato che diventa racconto non può essere abolito, ma si rigenera nella parola. Lo sa bene Ginevra Bompiani che, con Le specie del sonno (1975, Quodlibet 1998), aveva saputo riportare il presente al mito antico e ora, con Mela zeta, ironica allusione al tasto che fa retrocedere, mostra come l’unico intervento possibile sul tempo sia ancora la parola. Gli amici, i maestri di una generazione, rivivono col loro brio e la loro sapienza – “Dio brilla per la sua assenza nelle stelle”, le aveva detto un giorno Bergamin – in una sintonia complice ed esemplare anche per la generazione contemporanea. Il mito che la vita fa di se stessa, cioè il suo passato è, come sappiamo dall’analisi del profondo, un flusso inarrestabile di eros, indissolubile dal desiderio di conoscenza, in cui la coscienza non fa che immergersi e risalire, talvolta più felice, talaltra sconvolta, ma sempre più sapiente.
A differenza dell’atto del pensiero e della volontà che sono puntuali e istantanei, “l’amore” avverte Ortega y Gasset, “è un flusso, un getto di materia animica, un fluido che incessantemente sgorga come una fonte”. Mettere in letteratura questo dinamismo inarrestabile dell’anima e raggiungerlo con la parola nella felice illuminazione del quotidiano, riuscirci senza restarsene nell’alveo claustrofilico dell’io – come faceva in modo comunque eccelso Virginia Woolf – vuol dire trasformare la vita in accogliente e veridica mitopoiesi. Qui è il seme di una nuova letteratura e la qualità sorprendente del libro. Dove l’altro non è l’estraneo, ma l’ospite. Ospiti sono José Bergamin, Elsa Morante, Ingeborg Bachman, Anna Maria Ortese, Giorgio Manganelli, Piero Guccione, Sonia Alvarez. Il legame erotico che fa della memoria un ricordo – come aveva capito Kierkegaard, il ricordo è alieno da qualsiasi automatismo cui la memoria può invece prestarsi – istituisce con l’altro un rapporto di trasformazione che non impedisce il nitido apparire della figura. Spiare il possibile errore germinato dall’eccedenza immaginativa che l’altro ha innescato a sua insaputa, è uno dei trucchi che questa mente accesa e trasparente ha escogitato per non darsi mai tregua, sempre alla ricerca di una perfezione che da qualche parte ha intravisto. È la Bellezza.
Nel libro non vi sarebbe un amoroso rivivere dell’altro e con l’altro se non ci fosse sullo sfondo questa idea “regolativa”. Se ne avverte la tacita ma potente continuità. “Mi rendo conto di aver parlato incidentalmente di due cose: la mia incapacità di affrontare la morte e la mia dipendenza dalla bellezza. Entrambe sono tratti persistenti. Anzi, oggi affrontare la morte altrui mi è ancora più difficile e alla mia penso poco. Per quel che riguarda la bellezza, è quel che mi attrae in umani, animali e cose. È una specie di snobismo edenico: un Eden pagano, un Parnàso piuttosto. O un’Arcadia su cui non si affacci la Morte”. Il viaggio nell’anima che questo libro descrive riesce ad aggirare l’Intrusa proprio quando essa raggiunge quel luogo eletto in cui l’anima si placa e nessun sospetto di errore sembra più tormentarla. La Bellezza è il ricordo di una serata con Gilles Deleuze: “La serata era fatta per l’armonia, e armonia ci fu, dal primo momento, dal primo sguardo, timido-eccitato il mio, serio-riservato il suo. Piano piano, grazie al vino, alla straordinaria discrezione dei commensali, prese forma la felicità”.
L’anima, nonostante l’ostacolo irremovibile del passato, può dunque trattenersi accanto alla felicità che una volta ha toccato, facendo quel che neppure un dio si sarebbe mai permesso di fare: che solo il passato che amiamo sia stato? Obbligando Cronos a restituire il passato inghiottito malamente, gli amici continuano a vivere nel mito della lingua. Quale lingua sarà? “Durante la cena si parlò dell’amicizia. Lui disse che fra due amici non c’è bisogno di parlare. Gli amici sono due che possono tacere insieme”. L’onda della scrittura si placa in questo istante eterno e perfetto. Il silenzio in cui i due amici si riconoscono. Era stato anticipato dal racconto di un viaggio di soccorso nelle zone di guerra della ex- Jugoslavia. Qui, a saperla ascoltare, tra i profughi di Srebrenica da dove la parola della scrittrice ci raggiunge, c’è una lingua primigenia senza più incomprensioni né errori: “La lingua che è tanto più limpida quanto meno si spiega in parole”. “La lingua canora del mondo”. Aver trovato il modo di far sentire questa lingua attraverso la propria è l’incanto incomparabile del libro. Vi affiora un’idea di letteratura che indica l’approdo a un tempo mitico della mente che coincide con l’amore del pensiero.
monica.ferrando@tim.it
M Ferrando è saggista e pittrice