Un cervello collettivo
recensione di Bianca Maria Paladino
dal numero di luglio-agosto 2017
Gian Carlo Ferretti
L’EDITORE CESARE PAVESE
pp. 220, € 22
Einaudi, Torino 2017
Dopo Vittorini editore, Gian Carlo Ferretti ci offre un nuovo importante ritratto di intellettuale-editore: quello di Cesare Pavese. Con esso colma un vuoto negli studi sull’editoria e completa il discorso già avviato con Vittorini. Ricostruire il ruolo svolto da Pavese nell’Einaudi dal 1938 al 1950 (data della sua morte) vuol dire infatti spiegare come è avvenuto nella casa editrice il passaggio dal progetto editoriale iniziale del 1933 alla strutturazione aziendale settoriale degli anni cinquanta e sessanta (redazione, ufficio commerciale, ufficio stampa, eccetera). Di Pavese, fino ad oggi, erano note le attività di editor e di traduttore, di autore, di suggeritore di nuovi titoli per il catalogo, ma se ne ignoravano le abilità nelle strategie produttive, la forza decisionale, la capacità di organizzare il lavoro editoriale e le relazioni esterne, lo sguardo lungo sulla produzione in funzione del mercato. Ferretti, attraverso documenti, foto, epistolari, verbali di redazione, contratti, ne ricostruisce puntualmente l’intero e coerente lavoro ed insieme le ragioni del percorso di vita. Cosicché si può dire che Lavorare stanca e Il mestiere di vivere rappresentino gli orizzonti entro cui si condensa tutta l’attività dell’editore e dell’autore, ma anche dell’uomo, che guarda molto avanti e sente di essere rimasto solo, di aver esaurito troppo presto ogni progetto culturale e di vita.
Grande mediatore
Fin dal 27 aprile 1938 le numerose mansioni previste da Giulio Einaudi nell’impegno di assunzione (traduzioni, revisione di manoscritti, di bozze, esami di opere italiane e straniere, lavori vari e corrispondenza inglese, cui poco dopo si aggiunsero anche compiti di organizzazione aziendale, selezione di personale, assunzioni e redazione dei contratti, strutturazione di nuove sedi a Torino e a Roma) lo collocarono ben oltre la funzione di editor. Pavese risultò subito pratico, efficiente, e in soli dodici anni, riuscì a strutturare l’intera e complessa macchina organizzativa e ideologica dell’Einaudi. Il cosiddetto “direttorio” (Pavese, Einaudi, Ginzburg, Pintor, Muscetta e Alicata) risale al 1941, le riunioni collettive di redattori e consulenti cominciarono nel 1945, e la istituzione del “mercoledì”, con verbalizzazione degli incontri, ebbe inizio il 21 maggio del 1949. Nello stesso anno entrarono in casa editrice Bollati e Boringhieri, più tardi Cerati. Fino ad allora al solo Pavese era spettato tirare le fila della produzione, occuparsi della promozione della Settimana Einaudi, della realizzazione del “Bollettino di Informazioni culturali” (1946). Il carico di impegni e responsabilità fu denunciato dallo stesso Pavese in varie corrispondenze con ironia (per 1000 lire al mese) e talvolta con amarezza. Fu un grande mediatore, seppe comporre contrasti e punti di vista diversi senza rinunciare mai ad obiettivi editoriali coerenti con il progetto intellettual-pedagogico dell’Einaudi: offrire al lettore un’ampia possibilità di scelta tra saggistica e narrativa, una varietà di argomenti e discipline che gli consentissero di orientarsi nell’intero catalogo. Certamente in Casa Einaudi il dominus restava Giulio, stimolatore di una concordia discorde nel dibattito culturale, nonché garante delle risorse economiche necessarie all’impresa editoriale. Non mancarono validissimi collaboratori e consulenti il cui insieme costituì un “cervello collettivo” di straordinaria forza e durata di cui il catalogo è sintesi, espressione di un rapporto attivo tra rigore e sperimentazione, criticità e problematicità, classicità e modernità, tendenza a sinistra, ma anche apertura. E benché la produzione fosse organizzata in collane con proprie specificità (“Millenni”, “Coralli”, “Supercoralli”, “Scrittori tradotti da scrittori”, ecc.), la non settorialità risultava esserne una costante. E tale fu l’orientamento, la peculiarità soprattutto della “collana viola”, di studi etnoantropologici condiretta, nel 1947-48, con Ernesto de Martino. In essa (non senza polemiche e difficoltà) furono pubblicati testi di Frazer, de Martino, Jung, Kerényi, innovativi per temi e discipline.
Anche in questo caso la gestione delle diverse posizioni dei due direttori di collana non fu facile: Pavese riteneva che i testi originari dovessero essere offerti in lettura “nudi e crudi”, de Martino sosteneva la necessità che fossero “vaccinati” da prefazioni alla lettura. E fu proprio per la interdisciplinarietà che tale progetto costituì l’obiettivo prevalente ed unificante del percorso intellettuale ed editoriale di Pavese negli ultimi anni di vita. Il mito, che era stato punto di partenza della sua ricerca poetica, ora era punto di arrivo speculativo della maturità di direttore editoriale. La “Collana viola” dunque traduce la cifra stessa della sua attività: fondare, attraverso il lavoro editoriale, un progetto di sperimentalismo integrale, sostenuto da una inesauribile ricerca di conoscenza. Va detto infine che questo libro è il frutto maturo della ricerca di Gian Carlo Ferretti. Le numerose fonti si tengono in un racconto intenso e pacato che rivela da una parte la fatica di fare i libri e dall’altra il profilo di un intellettuale libero da ogni condizionamento.
bianca.maria.paladino@alice.it
B M Paladino è studiosa dell’industria editoriale