Sul destino della critica, in coda alle riflessioni di Vittorio Coletti
di Gian Luigi Beccaria
dal numero di febbraio 2017
I grandi critici del secolo scorso (da Auerbach a Spitzer, da Debenedetti a Contini, da Getto a Cases e a Segre ecc.) furono per noi più giovani irresistibili bussole di orientamento nelle mappe dei mari letterari. E non perché le loro letture possedessero caratteri di assoluta oggettività. Ci davano intanto indicazioni di “valori”, attraverso letture che comunque erano altamente “personali”: chi si fermava di più sui tratti stilistici, chi sui personaggi, chi sull’ideologia, chi sul tasso di “attualità”, di “rispecchiamento” dell’età presente. E chi si occupava di più del testo, chi del contesto. Ogni critico vedeva una cosa e non un’altra, enfatizzava certi aspetti e ne lasciava cadere degli altri. Hanno intanto insegnato un mestiere a tanti, e non perché fornissero criteri generali di lettura, casistiche pronte a tutte le situazioni, ricette e precetti pronti all’uso. Criteri per definire buona o cattiva un’interpretazione critica non ne davano. “Non seguitemi” era il motto di Leo Spitzer. Tutti però si ponevano di fronte all’opera letteraria come a una costruzione culturalmente complessa, rivolta a un lettore colto. Sia la letteratura sia la critica presupponevano un pubblico culturalmente attrezzato, capace di gustare se non di cogliere anche i rimandi interni a una tradizione e le risonanze, entro un coro di appartenenze e di “tastiere rammemorative” (Osip Mandel’štam).
L’impronta umanistica della nostra cultura portava a tenere in gran conto la pagina letteraria come scrittura inscritta in un flusso ininterrotto, scrittura durevole, che per parlare nel presente e del presente arrivava da lontano, si inseriva in una continuità, colma di passato, di esso intrisa, con rimandi sottili. Dante, poniamo, secolo dopo secolo protendeva la sua presenza fino al Novecento. La grande critica ci insegnava che la presenza del passato era fondamentale per l’interpretazione, che non potevo leggere Montale senza presupporre Dante. Ed è pur vero che non posso gustare sezioni dell’opera di Caproni senza Cavalcanti, né leggere il Fenoglio maggiore senza l’Iliade e senza la Bibbia. Questa “mistica partecipatoria”, come diceva Walter Ong, aveva creato il senso di una comunità letteraria. Ora il mondo è cambiato, quasi di botto. Dopo l’incombente presenza del passato e del senso della “durata” dell’opera, siamo passati all’iperconsiderazione del presente (e insieme dell’effimero). È cambiato intanto il mercato dei libri, si è enormemente allargato il pubblico. E la stessa lingua degli scrittori si è adeguata a un pubblico più vasto e meno colto. Il colloquio si è ampliato a dismisura, sparpagliandosi in più luoghi e settori. Le fonti dei libri non sono più, come in passato, i libri, ma spettacolo, cinema, tv, le canzoni, la pubblicità, i più correnti “tormentoni” magari, il parlato comune, il dialogo quotidiano, la rete, i social network… quella vita di parole e di storie insomma che ci fermenta intorno, che prepotentemente colma i nostri giorni. Non sarà un caso che i narratori ad esempio abbiano quasi tutti optato per una scrittura più libera e dalla disinvolta oralità.
A tutto questo groviglio di temi ci riporta il sintetico intervento di Vittorio Coletti sul numero 11 dell’“Indice”, “alla ricerca di una disciplina letteraria”, vale a dire “la critica”, che pare ora sepolta, o comunque in fortissima crisi. Non credo che la crisi sia dovuta al fatto che a essa tocca oggi esercitarsi sulla mediocrità della nostra letteratura corrente, avvertibile soprattutto nella narrativa, viziata da un eccesso di produzione non più sostenuta dalla qualità, ma assestatasi su livelli medio-mediocri. Si stampano valanghe di romanzi, i migliori spesso se ne restano imboscati, anche perché la critica dei critici non contribuisce più a dissotterrarli, a mediare autorevolmente tra il testo e i lettori (la palla è passata ai giornali). C’è chi in proposito intona la solita geremiade sulla grande letteratura che è tramontata, che non ci sono più i Montale, i Gadda e i Calvino. Ma il lamento sui mala tempora non è forse sempre stato una ricorrente consuetudine? Potremmo citare passi di classici latini, o passi ben noti di Leopardi. Renato Serra agli inizi del Novecento lamentava: “Oggi tutti scrivono, in modi diversi, press’a poco la stessa lingua”, “romanzi e novelle oramai in Italia hanno realizzato il tipo unico con una felicità da fare invidia ai produttori di vino toscano. Un tipo solo in tre o quattro confezioni”. Che direbbe Serra oggi, ora che l’unificazione si è fatta planetaria: stesso stile globalizzato, per un pubblico costituito di lettori sempre più uguali, che hanno gli stessi gusti? Quanto agli studiosi, giovani bravissimi che fanno i critici o i filologi ce n’è in quantità. Ma è cambiato ciò che continuiamo a chiamare saggistica, o letteratura. Lo spazio culturale che la critica ricopriva nella società si è enormemente ridotto, quella disciplina si è seppellita tra gli specialisti e le accademie, si è rinchiusa nella limitata schiera di quei critici che scrivono soltanto per altri critici, senza occuparsi se debba ancora servire a qualcuno che sta fuori di quella cerchia. Ma quella “cerchia”, dicevo, è cambiata. Non c’è alcun dubbio che (lo scriveva Giovanni Giudici nel 1985) “i nostri scritti dovranno (…) bussare alle porte di un mondo di gente così, ben diverso evidentemente dal mondo al quale il conte Tolstoj destinava, per esempio, la grazia di Natascia o il sole di Austerlitz”.
gianluigi.beccaria@unito.it
GL Beccaria è professore emerito di storia della lingua all’Università di Torino
La critica letteraria, disciplina insepolta
Che la critica letteraria sia in crisi lo si sa, ormai, da quasi un quarto di secolo (nel 1993 Cesare Segre intitolava un suo libro Notizie dalla crisi); che sia morta, da almeno un decennio (Eutanasia della critica, addirittura, è un titolo di Mario Lavagetto del 2005). Non credo però che le ragioni principali di questo fenomeno siano da addurre, come fa Vittorio Coletti sul numero dell’”Indice” di novembre, alla perdita di prestigio sociale e importanza culturale della letteratura del nostro tempo… L’intervento di Andrea Cortellassa sul numero di febbraio 2017.