Si ride dove si piange, il resto è Eden
recensione di Marco Vitale
dal numero di giugno 2017
Charles Baudelaire
DELL’ESSENZA DEL RISO E IN GENERALE DEL COMICO NELLE ARTI PLASTICHE
a cura di e trad. dal francese di Evaldo Violo
pp. 117, € 13
Unicopli, Milano 2017
Manifestazione, attitudine, inclinazione esclusivamente umana – gli animali non ridono – il riso, e quanto più o meno consapevolmente lo muove, il comico, costituiscono un termine di ricerca filosofica e teologica che attraversa i secoli, almeno a datare dalla Poetica di Aristotele e dalla sua condanna, che farà testo. Riserve sul riso non mancano ugualmente nelle scritture veterotestamentarie e forse allo stesso Quohèlet potrebbe risalire la massima, attribuita con margine di dubbio a Bossuet, che inaugura il denso, problematico scritto che Baudelaire dedicò all’argomento: Le sage ne rit qu’en tremblant.
Apparso su una piccola rivista nel luglio del 1855, solo due anni prima della pubblicazione di Les fleurs du mal, il testo ha un’elaborazione complessa che risale alla metà degli anni quaranta, con diversi rimaneggiamenti (1851-1853) mentre la stessa redazione del 1855 subirà nel 1857 importanti modifiche, per approdare alla versione ultima nel 1868 in un’edizione comprensiva anche dei due saggi sui caricaturisti francesi e stranieri, che ne costituiscono lo sfondo e l’ideale completamento.
Chi ride dunque, e come e perché? A queste domande Baudelaire inizia a rispondere evocando una banalissima scena cittadina: un uomo scivola sul marciapiede mentre il volto di chi si trova per caso a osservarlo è deformato da una improvvisa risata. Chi ride, se ne renda conto o meno, si pone così su un piano di superiorità rispetto al suo maldestro consimile, presumendo che un caso analogo a lui non possa toccare: per questo motivo, e il testo prende subito un’altra piega, il riso è da dirsi satanico.
Superiorità satanica
Satanica e insieme umana è infatti la presunzione di superiorità di chi, umanamente, è segnato dalla caduta, dalla fine dell’unità edenica che l’accesso proibito alla conoscenza ha determinato. Ed è il motivo per cui il saggio, colui cioè che sa di non sapere, se è mosso al riso intimamente ne trema. Ride dunque chi è corrotto dalla perdita dello stato originario e il suo riso è parente delle lacrime: esprime una superiorità, non importa se inconsapevole, che maschera la tragedia della sua condizione – pascalianamente – di miseria e grandezza: la prima rispetto a Dio, la seconda rispetto agli animali.
Non si ride e non si piange dove regna la gioia, che è condizione edenica, e tocca, dovrebbe toccare, anche i sogni delle utopie socialiste dell’Ottocento cui Baudelaire, ironicamente, accenna. E a riprova di quanto dice immagina Virginie, l’eroina settecentesca di Bernardin de Saint-Pierre, venuta dall’incontaminata natura delle isole Mauritius – Baudelaire ne conservava l’incanto dal suo viaggio per mare del 1841 – alla grande Parigi “straripante e mefitica”. Passando davanti alle vetrine di un librario al Palais Royal la ragazza, che incarna l’ingenuità e la purezza originaria, resta turbata da una caricatura. Si tratta di un qualcosa che vede per la prima volta e la inquieta, sentendolo istintivamente come riprovevole; non potrà riderne. A ridere, ci dice Baudelaire, imparerà se non farà ritorno alla sua isola di paradiso, se resterà nei lacci della civilisation toccandole così, insieme alla miseria, il privilegio della conoscenza. Perché, e si tratta di un nodo essenziale di questo saggio, dal male si può trarre partito e questo porta a una riconsiderazione importante e originale del comico. Il comico che Baudelaire distingue in significativo e assoluto. Il primo, che contempla una superiorità rispetto all’uomo, e comprende l’effervescente mondo della caricatura – genere di gran risalto al tempo della monarchia di luglio – fino a raggiungere i risultati più alti nel teatro di Molière. Il secondo, sinonimo di grottesco, esprime una superiorità rispetto agli animali e al mondo della natura; vi rientra, seppure con qualche riserva, il grande Rabelais insieme alle pantomime e alle fantasie di Ernst Theodor Amadeus Hoffman.
Rispetto alla francese raffinata clarté che informa il comico significativo le preferenze del poeta vanno decisamente alle inusuali, talora barbariche energie del grottesco, che pone senza esitare al vertice della creazione poetica. E tra gli incanti di questo saggio vi è anche il poter assistere, insieme a lui e a non molti altri spettatori – la pièce, ci dice, non incontrò il gusto del pubblico parigino – a una favolosa pantomima inglese al Théâtre des Variétés, probabilmente un Arlequin andato in scena nell’estate del 1842. In poche pagine restiamo ammaliati di fronte al dispiegarsi di un’iperbolica violenza e fantasia scenica che fa dire al poeta: “Tutto ciò, esposto con le parole scritte, diventa pallido e freddo. Come potrebbe la penna rivaleggiare con la pantomima? La pantomima è l’epurazione della commedia, ne è la quintessenza, è l’elemento comico puro, liberato e concentrato”.
Evaldo Violo, che in cinquant’anni di lavoro editoriale, e segnatamente nei trenta in cui ha diretto la Bur, ha commissionato centinaia di traduzioni, soprattutto di classici, passa dall’altro lato del tavolo e offre di queste pagine una versione di concentrata chiarezza, con un’introduzione storica che ne avvicina il lettore alla complessità e alla fortuna critica.
marcovitale58@gmail.com
M Vitale è traduttore e poeta