I classici, la metrica, la traduzione e le peculiarità del colonialismo olandese
di Matteo Fontanone
dal numero di luglio/agosto 2017
Come la maggior parte dei poeti del novecento, lei scrive una poesia che si incardina sul rapporto tra l’io psichico e il mondo sociale. Tra le righe di questo corpo a corpo, che equilibrio trovano l’ispirazione tratta dal quotidiano e il rapporto con i modelli classici?
La mia quotidianità è scandita dai classici. Oggi ad esempio, passeggiando per Torino, mi sono imbattuto in una scritta che ha toccato la mia curiosità, era una domanda su cui io stesso mi sono molto interrogato, ed è la stessa che si chiede Aristotele nei Problemi. “Perché il tempo corre?” E a questo punto, aggiungo io, perché le foglie sono verdi e il mondo è colorato? Sono punti su cui ho scritto centinaia di pagine, senza mai essermi dato risposta. Questo per dire che, almeno per quanto mi riguarda, c’è sempre un legame tra la vita di tutti i giorni e le letture classiche: la poesia da sempre vive degli stessi temi, e come me la maggior parte dei poeti li riscopre ciclicamente.
Che valore attribuisce alla metrica nella poesia del ventunesimo secolo?
Montale aveva un grande senso del metro ma non usava le rime. Quando gliene chiesero conto, disse che le rime sono come una vecchia donna che bussa alla tua porta e ti chiede di essere più tradizionale, più latino. È fantastico, la rima ha un potere seduttivo che torna periodicamente a far visita ai poeti, e a seconda della loro intonazione può essere per loro catastrofica o elevarli. Per me però c’è sempre stato un solo metro, in base al quale ho scritto le mie poesie. Ha a che fare con l’aria dell’opera, è una musica che non viene dal nulla: è un ritmo interiore che percepisco leggendo i miei scritti ad alta voce, magari di fronte a un pubblico. Dopo, quando tocca al traduttore riportare la sua versione della poesia, mi rendo immediatamente conto da come legge se anche lui ha sentito il mio ritmo o no.
I suoi versi sono tradotti e letti in tutta Europa: crede che sia possibile preservare l’autenticità e la forza lessicale di una poesia nonostante il passaggio della traduzione?
È una questione fondamentale: tra poco uscirà in Germania un mio nuovo libro di poesie, e ci sono stati dei problemi con i traduttori. Non perché non mi capissero, è che non riuscivano a ritrovare la logica nei miei versi. Ce n’era uno in particolare in cui ho scritto “never give a poem a difference, otherwise: catastrophy”. Il mio traduttore tedesco, leggendo i versi tradotti dal suo collega di lingua inglese, capiva benissimo ciò che stavo cercando di veicolare, ma riteneva che fosse ai limiti dell’impossibile restituire il senso nella sua lingua. È un problema che coinvolge tutti, e che si presenta quando la poesia si fa misteriosa, i suoi significati più oscuri. Ma vorrei citare T.S. Eliot, che spesso sapeva cosa significassero i suoi versi senza aver bisogno di spiegarli, nemmeno a se stesso: proprio per questo, ai miei traduttori tedeschi ho chiesto di rimanere letterali e di non sciogliere il significato in perifrasi. Non voglio che sia la traduzione a dischiudere la logica delle mie poesie.
Che significato ha l’idea di invisibilità nella sua narrativa di viaggio e nella sua opera poetica?
Quando mi occupo di viaggi, da un certo punto di vista è bene che io sia invisibile: se mi concentro troppo su ciò che succede dentro di me non riesco a cogliere quanto c’è fuori, se le persone iniziano a comportarsi diversamente non posso osservarle come vorrei, perdo dei significati. È un discorso valido anche sul piano della pratica: se dai troppo nell’occhio allora le persone si inizieranno ad accorgere di te e non saranno più naturali, ti guarderanno, ti chiederanno qualcosa. L’invisibilità è necessaria a conservare un punto d’osservazione privilegiato. Per la poesia invece è diverso e parlare di invisibilità diventa difficile, la mia poesia parla dell’io ed è lì per essere letta; semmai dipende tutto dal lettore e da quanto è in grado di trarre da un componimento. Prendiamo ancora Eliot, talvolta lo leggi e non riesci a capirne nulla: significa davvero che è incomprensibile, o hai solo bisogno di insistere e provare a interpretarlo? Quando Eliot si rendeva conto di non capire delle cose scritte da lui, rimaneva fermamente convinto di doverle pubblicare. Io, questo, lo chiamerei istinto.
Che rapporto ha con la fedeltà al vero quando scrive di sé?
Prima ancora della fedeltà, il problema con il tipo di scrittura che pratico riguarda il genere. Spesso mi si chiede cosa io scriva, nello specifico. Fiction? Reportage? Saggistica politica? Poesia? Sono discipline diverse, e non se ne può parlare nello stesso modo: tra scrivere dei versi e visitare un paese per catturarne l’atmosfera c’è un abisso, e in questo abisso stanno i miei diversi criteri di fedeltà al vero. Nel 1987 in Germania scrivevo di politica, succedevano moltissime cose in pochi giorni, la situazione era convulsa. Dai pezzi che pubblicavo emergeva la mia opinione, interpretavo ciò che vedevo. Il punto d’osservazione per la narrativa di viaggio è ancora diverso, a volte sono presente e altre mi nascondo, come dicevo prima. Ho abbracciato tipologie di espressione piuttosto distanti tra loro, a me spetta il compito di tenerle tutte insieme.
In Tumbas rifletteva su immortalità e poesia: a tal proposito, in Cerchi infiniti, il pensiero va al suo commovente confronto con il diario di corte di Sei Shōnagon, uno dei momenti apicali della raccolta. Dopo mille anni, le parole dell’autrice sono ancora vive, attuali e urgenti.
Le Note del guanciale è uno di uno di quel libri che la critica, a posteriori, ha definito di avanguardia. Nonostante siano passati più di mille anni, e mi renda conto di quanto la definizione che sto per dare sia limitante, Shōnagon riesce a essere moderna. Si tratta di una donna giapponese dell’altissima nobiltà che scrive consapevolmente le sue memorie, annota ciò che le succede con una scrittura intima, confidenziale. Parallela a lei c’è l’opera di Murakasi Shikibu, il famoso Racconto di Genji, un altro classico fondativo della letteratura giapponese. Bisogna tener presente che far parte della corte giapponese nel periodo Heian significava abitare nella stratosfera. Basti pensare che Sei e i suoi simili venivano definiti come “la gente che vive sopra le nuvole”, erano considerati alla stregua di divinità, inarrivabili. Il loro era un mondo di estrema eleganza: ogni uomo, ad esempio, aveva il suo profumo personalizzato e unico, tanto che le donne li riconoscevano immediatamente, a partire proprio dalla fragranza che emanavano quando entravano nei loro appartamenti. Le conversazioni che avevano luogo in quelle stanze, poi, erano fortemente letteraturizzate: il grado di cultura della corte era così alto che conoscevano a memoria i poemi del sesto, settimo, ottavo secolo, e parlavano tra loro citandone versi, come in un gioco combinatorio.
Anche nelle corti del medioevo europeo c’erano prassi e rituali molto codificati.
Sì, ma il nostro Medioevo aveva un’accezione della letteratura del tutto sbilanciata sull’epica. In Giappone, invece il Racconto di Genji è un romanzo psicologico, arriva cinquecento anni prima dei nostri primi tentativi di guardare all’interiorità.
In chiusura, uno sguardo alla letteratura olandese. Multatuli, da molti considerato il più eminente autore olandese di sempre, ha fatto della critica al colonialismo eurocentrico un tema portante della sua letteratura. Oggi le cose sono cambiate?
Senza dubbio siamo un po’ più saggi di quanto non fossimo all’epoca. Multatuli era un funzionario dell’impero, un uomo intelligente. Ciò che non riusciva a sopportare era la stupidità negli altri, purtroppo ne era circondato, imbevuto com’era nel sistema coloniale. Max Havelaar è un’indagine sulla sofferenza dietro alle ricchezze che arrivavano tutti i giorni in occidente, ed è funzionale a una riflessione sul colonialismo olandese. Diversamente da ciò che facevano gli inglesi o gli spagnoli, noi olandesi non siamo mai stati interessati nell’imporre linguaggi o religione. L’Olanda ha occupato per secoli l’Indonesia, oggi non ce n’è uno che parli o capisca la mia lingua: il che è un peccato, avrei avuto tanti lettori in più. Gli olandesi, piuttosto, erano interessati al commercio. È interessante, nessuna velleità culturale: soltanto soldi.
matteo.fontanone@gmail.com
M Fontanone è critico letterario