La storia che ho sempre cercato di scrivere siete voi
di Loris Campetti
dal numero di ottobre 2017
Ciò che trasforma una delle tante anonime cittadine della provincia italiana in una sorta di bene comune che ha diritto a occupare una nicchia nella memoria collettiva, è sicuramente la sua natura, e se possibile la sua unicità. Terni sarebbe un luogo sconosciuto ai più se non fosse (stata) la città dell’acciaio. Tanto per capire di cosa si stia parlando, “a chi arriva in treno Terni si presenta con una gigantesca pressa da 12 mila tonnellate, dismessa dopo mezzo secolo di onorato servizio e oggi collocata a troneggiare sul piazzale davanti alla stazione”. I ternani la chiamano affettuosamente Mazinga, “un monumento dal sapore metallico est-europeo al lavoro siderurgico”. Le virgolette che usiamo in questa recensione non evidenziano le parole dell’autore del libro, a meno che non si prenda atto del fatto che il volume di cui stiamo parlando è anch’esso un prodotto collettivo: un prodotto intellettuale forgiato dagli operai di Terni.
Ma chi si occupa oggi dell’acciaio, a parte gli addetti ai lavori? E, soprattutto, a chi interessa l’uomo che lo lavora, lo modella, lo trasforma in oggetti fondamentali nella vita quotidiana? Oggi che il lavoro non è considerato più un valore perché conta solo la merce prodotta, oggi che il lavoratore è stato sostituito dal consumatore anche nelle agende politiche degli eredi della sinistra novecentesca, c’è bisogno di un qualcosa in più, di un valore aggiunto perché una cittadina di provincia immersa in una conca tra gli Appennini possa occupare un posticino nell’agenda della memoria collettiva. Nel caso di Terni, il valore aggiunto prende il nome di Alessandro Portelli. Portelli è un narratore poliedrico che applicando magistralmente la tecnica della storia orale è capace di trasformare in libro la musica popolare americana così come la vita dei minatori del Kentucky. Ma anche la storia di Terni, dei suoi uomini e delle sue donne, di intere generazioni operaie cresciute dentro una delle principali acciaierie del Novecento italiano. Gli operai si raccontano e contemporaneamente raccontano la loro fabbrica, il loro lavoro e la loro vita che sono state l’anima dell’intera città, il suo senso, la sua cultura e forse per troppo tempo la sua monocultura.
Parlano la loro lingua i protagonisti di La città dell’acciaio: due secoli di storia operaia (pp. 452, € 32, Donzelli, Roma 2017), un dialetto che può apparire ostico, a metà strada tra il romano e il marchigiano, a cavallo tra il Tirreno e l’Adriatico lungo la via Flaminia, un dialetto segnato dalle sue durezze e dalle sue molteplici, talvolta esilaranti ironie. Per mettere le scarpe e gli occhiali giusti al lettore che si incammina lungo il sentiero tracciato dall’autore, è utilissimo l’esergo scelto da Portelli a firma Woody Guthrie (Burn to win): “Ho sentito in me una tempesta di parole, abbastanza da scrivere centinaia di canzoni e altrettanti libri. Ma so che queste parole che sento non sono mia proprietà privata. Le ho prese in prestito da voi, così come ho camminato nel vento prendendo in prestito l’aria sufficiente per continuare a muovermi, e ho preso in prestito da mangiare e da bere per tenermi in vita… E io ho preso in prestito la mia vita dalle opere della vostra vita… L’unica storia che ho sempre cercato di scrivere siete voi. E non sono riuscito a scrivere una ballata o un racconto che dicessero tutto quello che c’è da dire su di voi. Voi siete i poeti, e la vostra lingua di tutti i giorni è la nostra migliore poesia scritta dal migliore poeta”.
L’unicità di Terni
La metodologia nella scrittura di Portelli è sostanza, è essa stessa contenuto. Terni città papalina, città anarchica e comunista, ora baciapile ora anticlericale accanita. Questa non è un’unicità negli entroterra dello Stato pontificio: a Macerata, cento chilometri da Terni, sulla facciata del municipio è scolpita in pietra la scritta Civitas Mariae, ma subito sotto è incastonata una lapide a Giordano Bruno, “vittima della tirannide sacerdotale”. E così a Jesi. L’unicità di Terni, ce lo ricorda ogni pagina del libro che racconta un pezzo d’Italia speciale come i suoi acciai a partire dall’Ottocento, è, insieme con l’acciaio, l’appartenenza – a un lavoro, a una fede, a un progetto collettivo – che caratterizza la sua popolazione, che per oltre un secolo ha onorato il lavoro e la dignità di chi lo esercita. È questo che smorza le contraddizioni, si può essere papalino o comunista, ma quando c’è da difendere la fabbrica e l’homo faber che la fa vivere l’intera comunità risponde come un sol uomo (le donne in acciaieria non entrano, tranne le addette ai servizi). Si può essere ultrà della Ternana calcio, la tifoseria italiana più di sinistra insieme a quelle del Livorno e dell’Ancona, oppure operai-ragazzi con l’orecchino o vecchi quadri sindacali, ma quando c’è da prendere le botte dalla polizia nessuno si tira indietro, neppure il sindaco o il segretario generale della Fiom. E quante volte i ternani le hanno prese, ma le hanno anche date, restando al secondo dopoguerra, ogni qualvolta le proprietà dell’acciaieria, siano state pubbliche o private, imponevano licenziamenti di massa e ridimensionamento della produzione: all’inizio degli anni cinquanta, diventato nella memoria collettiva “l’anno dei duemila” in riferimento proprio ai licenziamenti, quando gli operai si erano attrezzati per difendere il lavoro con le armi, così come durante la Resistenza al nazifascismo, o dopo l’attentato a Palmiro Togliatti; e poi ancora negli anni ottanta e negli anni duemila quando senza armi ma con immutata rabbia l’intera città si era stretta intorno ai suoi operai. Ma non erano riusciti a impedire che i tedeschi della ThyssenKrupp chiudessero la produzione d’eccellenza, il magnetico, per portarselo in Germania e fronteggiare così la crisi più dura. I governi, arresi alla globalizzazione neoliberista e incapaci di difendere le proprie eccellenze industriali, avevano lasciato soli operai e città, nonostante le grida disperate e politicamente scorrette degli operai scortati e caricati dalla polizia nelle vie di Roma: “La madre del tedesco è un puttanone…”. L’ultima battaglia, invece, l’avevano condotta da soli: anche a Terni aveva cantato la sirena del postindustrialismo, c’era persino chi sognava un futuro in cui da città dell’acciaio si potesse trasformare nella città degli innamorati, sfruttando l’immagine di San Valentino, patrono della “conca, ‘ndo la neve ce casca solo che sciorda”, per il calore sprigionato dalla fabbrica. In questa storia operaia di Terni c’è anche il 1977 con i sogni rivoluzionari e i successivi riflussi a base d’eroina. Sempre con ironia: “Quando pozzo me ‘mpallocco, spesso pozzo”. Che vorrà dire? Portelli se lo chiede ancora, anche se, sia lui che il lettore, qualche vaga interpretazione se la sono data.
Portelli non si è limitato a raccontare le lotte, le vittorie e le sconfitte operaie di Terni e ha scelto di mettere il naso nella globalizzazione della ThyssenKrupp, nei giorni in cui gli operai umbri conducevano la loro battaglia più importante è sbarcato in India per parlare con gli operai del competitor di Terni; e non si è fermato ai dipendenti diretti dell’acciaieria ma è andato a mettere il naso negli appalti, tra gli operai romeni, là dove morire sul lavoro è più facile. Ma anche a Torino è stato facile morire sul lavoro, sette operai bruciati, morti uno dopo l’altro al termine di terribili agonie: lo stabilimento stava per essere chiuso, dunque ThyssenKrupp aveva deciso di risparmiare sulle spese, in particolare sulla sicurezza. La ThyssenKrupp aveva tre livelli di sicurezza: il primo, il più alto, negli stabilimenti tedeschi; il secondo, intermedio, a Terni e l’ultimo, il più basso come la strage del 6 dicembre 2007 ha drammaticamente dimostrato, a Torino. In India non è dato sapere.
Il racconto parte dai tempi in cui i nobili locali erano padroni delle terre e della sua popolazione e arriva ai giorni nostri e ogni stagione è segnata dalle contraddizioni squadernate dai protagonisti, figli e nipoti e pronipoti, generazioni segnate dal lavoro siderurgico e, alla fine della storia, dal rifiuto di quel lavoro. Un capitolo sostanzioso è quello che racconta la lotta partigiana nel Ternano, la liberazione dei paesi e persino la formazione di una repubblica libera come in val d’Ossola, la sua caduta, la rappresaglia e le decimazioni fatte dai nazisti contro le popolazioni civili, le imprese della Brigata Gramsci e quel gruppo partigiano che quando un capo gridava “Savoia” non si muoveva nessuno ma al grido “Stalin” tutti si lanciavano all’attacco. Fu difficile per il Pci convincere i ternani – che non si accontentavano della nuova Italia perché la volevano socialista – a riconsegnare le armi alla fine della guerra, ci vollero anni affinché ciò avvenisse. La città intorno alla fabbrica, la fabbrica che si riversa in città, persino con i carri allegorici che nella patria dell’acciaio non possono essere di cartapesta come a Viareggio ma solidamente costruiti con tondini saldati l’uno sull’altro.
loriscampetti@gmail.com
L Campetti è giornalista e saggista