In coda al boom della narrativa latinoamericana
di Vittoria Martinetto
dal numero di novembre 2017
Il titolo a questa pagina di “ricognizione” su Manuel Puig in occasione della ristampa del suo Il bacio della donna ragno per l’editore Sur (ed. orig. 1976, trad. dallo spagnolo di Angelo Morino, pp. 302, € 16,50) lo attingo all’introduzione di Alan Pauls. E già che ci sono prendo anche a prestito l’idea della letteratura di Puig come di una ars culinaria, nel senso dell’abilità di arrangiarsi con gli avanzi, immagine che illustra in modo ancora più efficace e concreto quella che in vari saggi sullo scrittore argentino definivo estetica del riciclaggio, richiamandomi all’air du temps della pop art, in vigore all’epoca in cui Puig cominciava a scrivere.
Comunque la si definisca, sta di fatto che un’istintiva post-modernità è caratteristica indiscutibile di questo autore che pubblicò negli stessi anni di García Márquez senza avere una fortuna da best seller e venendo trascinato solo in coda al famoso boom della narrativa ispano-americana, per essere – dentro e fuori a questo fenomeno – scandalosamente anomalo. A dire il vero, l’Argentina, geograficamente e culturalmente lontana, nel continente, dalle sirene del realismo magico e dalle suggestioni precolombiane, in quanto edificata da un popolo che non discendeva da mitiche civiltà come quella Azteca o Inca, ma semplicemente dalle navi che scaricavano immigrati europei, aveva già prodotto, prima di Puig, autori eterodossi e postmoderni come Borges o Cortázar. Tuttavia la haute culture del primo o lo sperimentalismo intellettuale e fantastico del secondo erano ancora cucina fatta con ingredienti di prima scelta. Manuel Puig, invece, quasi rivendicando la propria formazione non letteraria, ha sempre lavorato con gli scarti del quotidiano e del domestico.
Puig, il cinema e le voci
Puig aveva, infatti, l’orecchio assoluto per i dialoghi, come sottolinea ancora Pauls: “Di tutti gli ambienti estranei cui Puig espone la letteratura (cinema, cultura di massa, generi minori, ecc.), la chiacchierata è senza dubbio il più banale, quello che meglio elabora la letteratura in direzione di un grado zero d’importanza”. Significativo è il fatto che la scoperta casuale della propria vena narrativa fosse avvenuta grazie a una sceneggiatura, il cui monologo iniziale, ispirato alla voce di una zia, finì per estendersi lungo trenta pagine divenendo l’incipit di Il tradimento di Rita Hayworth, suo primo romanzo. Da allora in avanti le voci sarebbero state le fondamenta di tutte le sue narrazioni fino al punto di valersi di un registratore, nel caso di Queste pagine maledette e di Sangue di amor corrisposto. Particolarmente vivide le conversazioni fra donne, sostanza di Una frase, un rigo appena o di Scende la notte tropicale – quello che una morte prematura avrebbe decretato come suo ultimo romanzo –, perché rimaste impigliate nella memoria dello scrittore dai tempi in cui, ancora bambino, cercava di sottrarsi alla desolazione della pampa e all’ostico maschilismo paterno, rifugiandosi negli ambienti dove la madre e le zie cucinavano ascoltando e commentando le novelas radiofoniche. E, fra tutte, le voci che abitavano la sala buia del cinema dove, accompagnando la madre dall’età di quattro anni, aveva finito per sovrapporre i volti e le storie del cinema americano anni quaranta alla provinciale realtà di General Villegas, dando inizio a un esilio da cui non avrebbe più fatto ritorno.
Rischiando di cadere nell’agiografia, va detto che il destino di Puig si sarebbe deciso proprio lì, sulle poltrone del Cine Español. Infatti, molto tempo prima che per motivi politici – la censura peronista abbattutasi su The Buenos Aires Affair, suo terzo romanzo – lo scrittore decidesse di allontanarsi fisicamente dal proprio paese, il mondo delle dive hollywoodiane gli aveva già dato pieno asilo, suggerendogli di perseguire a ogni costo la carriera cinematografica. Fu così che frequentò il Centro sperimentale di cinematografia di Roma alla fine degli anni cinquanta come tirocinante in regia, scoprendo tuttavia ben presto che l’autoritarismo congenito al mestiere non faceva per lui. Una volta esiliatosi anche da questo mondo, Puig sarebbe finalmente approdato alla scoperta della grande libertà che concedeva la pagina scritta dove poteva, fra l’altro, aggirare la tirannia della voce narrante annullandola nel dialogo fra personaggi e nell’assemblaggio di materiali spuri saccheggiati al reale, reperti triviali e per così dire clandestini in letteratura – terra per lui fino ad allora estranea –, divenendo ignaro precursore di un canone in cui sembra collocarsi un intero filone della narrativa ispano-americana contemporanea.
Il cinema e le voci, dunque, nel cuore della narrativa di Manuel Puig e, all’interno di questa, la loro celebrazione nell’opera per la quale lo scrittore argentino è maggiormente ricordato, il quarto dei suoi otto romanzi, con uno di quei titoli pop che facevano inorridire Borges. L’insospettata “versatilità” di questa storia apparentemente claustrofobica – l’incontro nella cella di un carcere fra un’omosessuale démodé e un rivoluzionario dogmatico – è ancora oggi stupefacente, se si pensa che il romanzo ebbe due adattamenti teatrali – uno allografo (Marco Mattolini, 1979) e uno autoriale (Manuel Puig, 1981) –, una trasposizione cinematografica (Héctor Babenco, 1985) e una musicale (Harold Prince, 1992), là dove la versione cinematografica ricevette due nomination a Cannes e quattro agli Oscar vincendone uno per l’interpretazione di William Hurt nel ruolo di Molina (1986), mentre il musical vinse a Broadway il Tony Award (1993), ovvero il più alto riconoscimento di questa industria dello spettacolo.
Il bacio della donna ragno
Omaggio al potere incantatorio, quando non salvifico, del cinema, quale luogo di incontro e poi di integrazione fra due persone all’apparenza incompatibili per visione del mondo ed esperienze di vita, Il bacio della donna ragno ripete, allegoricamente, uno degli schemi più classici della narrazione: boy meets girl (in questo caso boy meets boy), l’amore nasce, si consuma e termina con la morte. Da qui l’universalità della storia, la sua possibilità di adattarsi a diversi sistemi segnici, anche a costo di svuotarsi della sua complessità originaria, che molto deve alla struttura del romanzo – costruito a base di dialoghi, e frasi di trame cinematografiche, note a pie’ di pagina, rapporti di polizia – fino a vederla annullata nelle semplificazioni estreme richieste dal linguaggio di Broadway. Da qui, anche, l’insoddisfazione di Puig riguardo agli adattamenti (salvo quello teatrale), pur compensati da un ritorno in notorietà. E come dargli torto: l’80 per cento della costruzione del senso, nel romanzo, si regge proprio sullo scambio dialogico – in senso lato – fra i due detenuti (là dove il dialogo è necessariamente ridotto nella versione cinematografica per privilegiare la rappresentazione mimetica di azioni lì soltanto alluse). Molina, un vetrinista omosessuale accusato di pedofilia, cerca di intrattenere il compagno di cella Valentín, prigioniero politico poco incline alla leggerezza, con il resoconto dettagliato di certi film di serie b – melodrammi, pellicole del terrore o sentimentali, compresa una di propaganda nazista – che gli servono non solo per far passare più velocemente le ore, ma per parlare di sé ed, eventualmente, sedurlo.
Malgrado l’iniziale reticenza di Valentín, le discussioni ingaggiate a partire dai film e lo scambio di vedute su argomenti che li toccano in profondo, permettono non solo un avvicinamento progressivo fra i due uomini, ma anche una reciproca trasformazione, siglata da un breve amplesso. Lo scioglimento della vicenda, preceduto a metà romanzo dal colpo di scena che rivela al lettore il doppio gioco di Molina, – inizialmente incaricato dal direttore del carcere di strappare informazioni sulla cellula terrorista del compagno – lo vedrà sacrificarsi, una volta uscito in libertà vigilata, alla causa del guerrigliero, non tanto per convinzione politica, quanto a imitazione delle eroine dei suoi film preferiti. Risiede qui la verità della vicenda narrata da Puig: nel fatto che, a differenza degli happy ending hollywoodiani, la crescita dei due uomini non presuppone una macchiettistica trasformazione del guerrigliero in omosessuale e dell’omosessuale in guerrigliero, bensì il raggiungimento di una pienezza cui entrambi aspiravano. E poco importa se, per Molina, questo culmine si manifesta in modo tragico. Il finale di Il bacio della donna ragno è, malgrado le apparenze, un finale felice, come il sogno che lo sigilla. Molina è riuscito a impersonare una delle sue dive, Valentín ha acquisito un grado di tolleranza e di completezza umana, grazie al riconoscimento del proprio lato femminile, che lo condurrà a una lotta più giusta ed equilibrata in futuro, quando, come il finale aperto lascia presupporre, verrà infine liberato.
Il messaggio di questo romanzo – che deve molto alla sexual politics e al pensiero di Marcuse, ma non per questo è datato – approfondisce un discorso molto caro a Puig e già iniziato in The Buenos Aires Affair, che denuncia i rapporti di potere all’interno dei quali si definisce il sesso e i diffusi pregiudizi che contrabbandano elementi culturali come naturali. Ma si badi bene: Puig non contrappone omosessualità a eterosessualità, bensì promuove la libertà di non definirsi tramite un (solo) sesso. Se, come insegna Foucault, sul corpo e sugli interdetti che lo hanno colpito sembra essere storicamente nata la repressione, è proprio in seno alla sessualità che deve cominciare la rivoluzione in grado di scardinarla.
Riguardo all’idea di riproporre l’opera di Manuel Puig – tanto futuristica agli inizi degli anni settanta, quanto attuale oggi – con Il bacio della donna ragno, un meritato applauso a Sur anche per la saggia scelta di mantenere, pur con la dovuta rilettura di Martina Testa, l’ormai totemica traduzione di Angelo Morino, il più fine conoscitore e promotore, oltreché amico, del grande scrittore argentino.
vittoria.martinetto@gmail.com
V Martinetto insegna letteratura ispanoamericana all’Università di Torino