Grazia Deledda, la ruvida faccia della realtà

Un risarcimento fra socioantropologia e riflessione esistenziale

di Domenico Calcaterra

dal numero di giugno 2017

Nella lunga introduzione a Nostalgie (1905), romanzo dedicato al marito che avrebbe provocato la livorosa stroncatura di Ojetti sul “Corriere della Sera” e a cui avrebbe fatto seguito il proposito di Pirandello di ispirarsi ai coniugi Madesani-Deledda per la trama di Suo marito (1911), Grazia Deledda scrive che per lei la critica assomiglia al Fisco: “Quasi sempre ci tassa per capitali superiori a quelli che realmente possediamo”. Rivendicazione di “piccolezza”, certo, spiccata soprattutto a farsi scudo da paventati attacchi critici (che di fatto giunsero puntuali) e da pregiudizi che furono non meno duri a morire. Ciononostante, trascorsi novant’anni dall’attribuzione del Nobel, un giusto risarcimento comincia a essere pienamente corrisposto a colei che, a lungo, ebbe la fama di essere la più sgrammaticata delle scrittrici europee, se sul finire dello scorso anno, sono apparsi diversi libri dal taglio biografico a celebrare gli ottant’anni dalla morte.

Una vita da romanzo

Si parte da Deledda. Una vita come un romanzo di Luciano Marrocu (pp. 128, € 19,50, Donzelli, Roma 2016), nel quale, assumendo come punto d’avvio della narrazione biografico-intellettuale l’anno della svolta, il 1899 – con l’incontro e il matrimonio con Palmiro Madesani e il trasferimento a Roma –, cerca di rivelare il carattere della scrittrice, ripercorrendo vicissitudini famigliari, idiosincrasie e frequentazioni (De Gubernatis, Cena, Moretti), chiamando in causa l’epistolario e le pagine di quei romanzi dalla più scoperta impronta autobiografica.

Si contraddistingue, invece, per l’essere corredato da preziose immagini d’epoca che meglio aiutano a penetrare l’antropologia di quel mondo da cui derivò una scrittrice dalla penna e dalla personalità così singolare, il libro di Maria Elvira Ciusa, Grazia Deledda. Una vita per il Nobel (pp. 207, € 20, Delfino, Sassari 2016). Ma senza dubbio il più documentato ed esaustivo è l’ampio e assai empatico volume che le dedica la ricercatrice Rossana Dedola (Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere, pp. 400, € 22, Avagliano, Roma 2016), avvalendosi anche del recente ritrovamento di materiali inediti (presso biblioteche europee) che forniscono ennesima conferma dell’allargata prospettiva entro cui considerare la parabola letteraria dell’autrice. Coniugando intento biografico e racconto critico, anche Dedola concede (a ragione) ampio spazio alle lettere, specie a quelle che, lette insieme, rappresentano il primo romanzo di Grazia, la sua precoce fuga dalla chiusa realtà nuorese: in cerca di quel “vero amore” da lei vissuto come “comunione spirituale delle anime sole” (così a Giovanni De Nava, lettera 10 giugno 1894). E che la porta a codificare in formule fisse – nella dinamica ricorsività di modi, pose, pensieri (non di rado desunti da calchi letterari) –, che ridondano in abbondanza nell’epistolografia giovanile deleddiana. Le audaci missive indirizzate ai suoi corrispondenti di turno (Pirodda, De Nava, Stanis Manca, De Gubernatis) furono, per lungo tempo, il solo spazio concesso per darsi un’esistenza parallela, fatta a immagine e somiglianza dei suoi desideri e dei suoi sogni più intimi.

Impulso autobiografico

Quel tenace apprendistato consumato da vorace autodidatta, pur tra le angustie dell’ambiente famigliare e isolano, che sin da giovanissima la vide farsi resiliente agli urti della vita: dalla pena per il perdersi degli amati fratelli Santus e Andrea, al complicato rapporto con la madre Francesca Cambosu (che mai riuscì a metabolizzare la “diversità” di Grazia), il cui carattere è adombrato nella madre della protagonista del suo primo romanzo (Fior di Sardegna, 1891); dalla morte dell’amato e ammirato padre, alle conseguenti difficoltà economiche… Basta leggere un romanzo come Sino al confine (1910) o sfogliare le pagine del postumo Cosima (1937), per rintracciare, narrativamente trasfigurate, queste vicende. È un impulso autobiografico, testimoniale ancor prima che personale, a indurla a rovesciare sulla pagina i casi di vita: da quelli privatissimi (frutto della sua diretta esperienza), a quelli ascoltati e raccolti, propri di quel mondo del quale si sentiva sì parte, ma con in cuore il fermo desiderio di evaderne, per realizzare in pieno la sua vocazione di scrittrice.

L’incontro con i libri, la lettura (e dunque la scrittura), fu, insomma, per Grazia Deledda (come per la Gavina di Sino al confine), il “frutto proibito”, il vero discernimento del dramma dell’esistere. Accanto al tessuto biografico non meno spazio è poi riservato da Dedola al tracciare la geografia dei luoghi deleddiani (e non solo quelli sardi), con l’intento preciso di rievocare la temperie culturale primonovecentesca (intenso, a tal riguardo, l’affresco della vita intellettuale della capitale). Furono gli scrittori della generazione appena successiva a comprendere, da subito, la reale portata della sua opera, da collocare ben al di là del ristretto alveo regionalistico e dell’esperienza del verismo: da Cecchi a Moretti, da Tozzi fino a Bonaventura Tecchi – tutti concordi nel sostenere che codici e tabù della società sarda sono resi assoluti e trasferiti sul terreno di una maniera tutta lirica e di un cupo fiabesco, per cui i suoi personaggi – come ebbe a scrivere, in un saggio del 1916 intitolato Per l’Arte di Grazia Deledda, quell’altro gigante irregolare (e come lei a lungo frainteso) di Tozzi – “spettano all’ordine umano che è universale”.

Inadeguatezza esistenziale

E Pirandello? Se pur non la comprese, seppur le loro esperienze letterarie fossero in apparenza e per certi versi inconciliabili, in Suo marito, ce lo ricorda proprio la Dedola, troviamo forse le pagine più scopertamente autobiografiche sulla qualità del rapporto d’amore tra Luigi e la fragile moglie Antonietta Portulano, proiettate nella relazione che unisce Maurizio Gueli all’amante Livia Frezzi. Si trattò insomma, tra Pirandello e la Deledda, possiamo qui supporre, di una perdurante fatale incomprensione, che li indusse vicendevolmente a respingersi, a non tendersi la mano. A noi lettori degli anni Duemila non rimane che tornare a chiederci, come fece Elisabetta Rasy, nel dedicarle uno dei ritratti contenuti in Tre passioni (1995), che cosa ce la faccia sentire, a rileggerla oggi, ancora “cara” e “amica”. I suoi romanzi conservano intatta la forza di apologhi (Barberi Squarotti), dove però non v’è sbocco, non è concesso alcun happy end: vicoli ciechi che conducono, immancabilmente,  al muro che si erge dinanzi all’anelito (frustrato) alla libera e piena realizzazione dell’essere, nella vita. Quel suo mettere il dito nella piaga, scavare nella ferita, è frutto di un incoercibile impulso a conoscere che trova forse la migliore epitome figurale in una delle pagine iniziali di Cosima, in cui descrive la casa di famiglia: quella finestra senza sbocco che la piccola Cosima Grazia “apriva con la sua fantasia”. A dire di una fantasia conoscitiva fervidissima che era il suo modo speciale di accostare la ruvida “faccia della realtà”.

La libertà, accarezzata, perseguita, quasi sempre a portata di mano, finisce per essere immiserita dallo schiacciante imperativo di dover rientrare nel giusto corso che religione, norma sociale, giudizio impongono, per convenzione, come sola regola dello stare al mondo. Ecco che, pur innalzandosi su di uno sfondo antropologico che tanto restituisce della Sardegna tra Otto e Novecento, i romanzi di Grazia Deledda assumono un rilievo paradigmatico di questa inadeguatezza esistenziale, di questo dramma assoluto del personaggio-uomo, che trascende il puro automatismo colpa-espiazione. A rilevare una impossibilità più radicale insita nelle cose stesse della vita (vicinanza, più che a Verga, ad autori già pienamente novecenteschi, come Pirandello e Svevo). Si tratta dell’agire di una forza “misteriosa e involontaria”, un inspiegabile “spavento della vita” (cito ancora da Cosima, sua autobiografia in terza persona). Non è il senso del peccato proprio a un’educazione cattolica, ma qualcosa se possibile di ancora più forte e istintivamente avvertito e patito: il male risiede in questo naturale senso di colpa che si annida nelle anime dei personaggi deleddiani, indotti, pur contro la loro volontà, a rinunziare alla vita, obbedendo a un divieto che assume fisionomia di destino: così per Elias Portolu, per l’Anania di Cenere, per il Paulo e l’Agnese di La madre (1920) o per Marianna Sirca, solo per citare alcune tra le sue memorabili figure di destino. Non è un caso che farà dire a Lia, la protagonista di Nel deserto (1911), sottovalutato romanzo del periodo romano, che la vita altro non è che “un dramma continuo, di cui noi siamo gli eterni personaggi” (come non pensare a Pirandello?). Atavico sentimento da scontare (sempre e comunque), come un debito originario, sia pure contro la nostra stessa volontà: si potrebbe dire che è proprio questo l’assioma primo dell’asfittico universo deleddiano.

Vittime di una duplice coercizione

Lo sconfinare dell’elemento socioantropologico nell’esistenziale è ciò che veramente dà il polso della completa modernità e attualità dell’opera della scrittrice di Nuoro. Che si tratti dell’ambiente agro-pastorale sardo o dell’interno borghese cittadino (come la Roma del già citato Nel deserto), i personaggi del mondo di Deledda sono vittime di una duplice invincibile coercizione: quella dell’ambiente cui appartengono (e il cui codice e il complesso sistema di divieti non ammette profanazione); dall’altra, quel rigore autodistruttivo che risiede e trova ragione nel vulnus di una vita avvertita come dolore, sconfitta a prescindere, perdita secca. La guerra è in noi, scriverà a Marino Moretti (in una lettera datata Viareggio, 7 agosto 1915), a puntare il dito contro un dato che non può che essere, nella sensibilità della scrittrice, sovrastorico: “La vita nostra è guerra; se forse questa guerra immensa che tutti ormai vogliamo combattere, è la conseguenza della guerra interiore che ci torce tutti – da anni e anni, – guerra di coscienza, di male e di bene, di aspirazione verso una gioia che non esiste, di desiderio di grandezza, di ebbrezza, di pazzia. E poi tutto passerà, per tutto ricominciare: come fa il mare con le sue calme e le sue tempeste”.

E viene da pensare come, proprio nell’ultimo suo romanzo, La chiesa della solitudine (1936), nella dolente figura di Maria Concezione, che tiene tutti i suoi spasimanti a distanza, condannata com’è a un sicuro e precoce declino dall’incombere della malattia, oltre all’evidente rimando autobiografico, abbia voluto schizzare il suo rabbioso ritratto in piedi alla “vita”, al pari della protagonista del romanzo desiderata, inseguita da tanti; ma capace di procurare, nello sconsolato e virile nichilismo di Cosima Grazia, solo delusione e dolore.

domenico.calcaterra@gmail.com

D Calcaterra è insegnante e critico letterario