Invicti, o del trionfo della Roma imperiale
di Franco Pezzini
dal numero di giugno 2013
Ormai da qualche anno, chi frequenti la sezione romanzi storici di qualunque libreria (in quelle grandi è ancora più evidente) sa di poter contare su una scelta ricchissima di avventure ambientate nella Roma antica. E molto spesso in quella di età imperiale, anche se con netto smarcamento dall’eredità dei classici alla Quo vadis? – la solita dialettica pagani/cristiani tanto amata a Hollywood – come dei sandaloni casarecci. Quasi che il cesarismo da (basso) impero dell’ultimo ventennio, la crisi di valori civili e quella economica travolgente provochino a confrontarsi con quel lontano passato: e del resto la messa in scena tra eccessi, incubi e inconfessati desideri di un mondo decadente, in travaglio politico e sociale e sessualmente disinibito, rappresenta per il romanziere, specie quello popolare, una palestra molto promettente.
Ai vilains romani di turno e ai barbari più o meno minacciosi si contrappongono così gli eroi protagonisti, in genere ardimentosi ufficiali che in situazioni estreme (ribellioni, tradimenti, invasioni) cercano di tenere alta qualche dignità istituzionale; e in sottotrame parallele muovono figure socialmente superiori (quelle storiche, magari della corte imperiale) e inferiori (civili di condizioni più o meno umili, che aprono lo scorcio su realtà diverse e popolari). Ma l’eroe può essere anche un imperatore «buono» alle prese con la crisi dell’impero, tra battaglie scatenate e mene di palazzo: e se una certa ripetitività di schema entra di diritto nel linguaggio del genere, va detto che le prove circolanti sono in gran parte di degno livello (scrittura decorosa, ricca documentazione), con una scuola italiana di ottimi narratori.
Italiani e anglosassoni tra imperatori e legionari
Citare Valerio Massimo Manfredi, la cui vastissima produzione di romanzi tocca anche il periodo in questione (in particolare L’ultima legione, 2002, e L’impero dei draghi, 2005, entrambi Mondadori) è fin troppo ovvio. Tra i nomi eminenti figura senz’altro Andrea Frediani, che dopo aver portato in scena con buon ritmo le avventure di Traiano (Un eroe per l’impero romano, 2009), e la trilogia Dictator su Cesare (2010) si è ora misurato con splendori e miserie dei Giulio-Claudii (La dinastia. Il romanzo dei cinque imperatori, 2012), tutte opere pubblicate da Newton Compton, che vanta ormai un lussureggiante catalogo «romano».
Per lo stesso editore Roberto Fabbri ha trattato l’ascesa di Vespasiano (Il tribuno, 2012, e Il giustiziere di Roma, 2013) mentre Giulio Castelli evoca il tramonto di un’epoca con una trilogia del 2010 (Gli ultimi fuochi dell’impero romano; Imperator. L’ultimo eroe di Roma antica; 476 A.D. L’ultimo imperatore). Sempre a livello esemplificativo tra legioni di titoli in libreria, per Piemme si sono illustrati Guido Cervo, con una serie di brillanti prove fin dal 2003 (La legione invincibile, seguito da Il legato romano, 2004, L’onore di Roma, 2007, Il segno di Attila, 2008, Le mura di Adrianopoli, 2009, Il centurione di Augusto e L’aquila sul Nilo, 2010) e Massimiliano Colombo, che all’età imperiale ha dedicato un paio di titoli (Il vessillo di porpora, 2011 e Draco. L’ombra dell’imperatore, 2012). A sua volta il titano Mondadori, da sempre forte nel romanzo storico, ha dedicato al tema ampie attenzioni: e in particolare brilla la serie Il romanzo di Roma coordinata da Valerio Massimo Manfredi, che su nove titoli ne vede ben cinque riguardanti l’impero. Con prove, merita sottolineare, che rileggono il citato schema di genere anche attraverso una più acuta coscienza letteraria: penso per esempio a quel Danubio rosso. L’alba dei barbari di Alessandro Defilippi, 2010 (cfr. «L’indice», 2011, n. 6), che nella messa in scena della tragedia militare di Adrianopoli trasfonde in un gioco sofisticato citazioni da Apocalypse Now ed echi antropologici alla Dumézil.
Ma a parlare di Roma non sono solo gli italiani. Se periodicamente vengono riproposti testi classici come il capolavoro Io, Claudio di Robert Graves (ultima per Corbaccio, 2012), non mancano traduzioni di autori contemporanei: e tradizionalmente affascinati dai militaria, eccellono in tali historiae gli anglosassoni. Autori come Douglas Jackson, Anthony Riches, Simon Scarrow e Harry Sidebottom (tutti presentati in Italia da Newton Compton), Gordon Russell (Piemme), M. C. Scott (Tre60), con le loro scatenate avventure d’armi, hanno ormai un forte pubblico nostrano. In effetti, uno degli aspetti che pare più affascinare i lettori del filone su Roma riguarda proprio le interminabili avventure militari, tra lealtà affaticate e infami tradimenti, imboscate, assedi, brutalità. Marce eroiche di soldati in mezzo alla natura ostile, confini estremi minacciati da orde barbariche, ricordi disillusi di una passata grandezza, qualche amore comunque sacrificato ai doveri delle armi.
Tale, per sommi capi, il quadro di un fenomeno editoriale che interessa ogni anno un flusso notevolissimo di titoli nuovi (più le continue riedizioni e ristampe), e il cui successo a oggi non vede flessioni. Eppure, a fronte di un target ben definito di lettori e a strutture narrative testate, anche nel romanzo storico popolare non mancano opere in qualche modo sperimentali, con tutto l’azzardo ma anche l’interesse del caso. E un esempio recente è offerto da Simone Sarasso con il suo Invictus. Costantino, l’imperatore guerriero (pp. 590, € 8,80, Rizzoli, Milano 2012): a tentare appunto una via nuova, la storia convulsa e torbida della fine della tetrarchia dioclezianea e dell’impero del liberatore dei cristiani, fino ai suoi ultimi giorni amari, è resa con un registro narrativo in chiave pulp.
Come in un film di Tarantino
Una scelta che ha premiato dal punto di vista del pubblico, entusiasta di sentir raccontare la storia romana come un film di Tarantino (tre edizioni solo tra giugno e luglio 2012) e comunque efficace: il linguaggio asseconda il clima da caserma in cui Costantino è formato, gli entusiasmi di un carattere simpatico e un po’ guascone, lo spirito d’avventura con cui affronta gli ostacoli, e in fondo non è inadeguato al contesto eccessivo di quello scorcio storico. Visionario e fortunato, lo stesso protagonista ha del resto una personalità ombra di assurda ferocia, che di quando in quando si scatena; e la pulp fiction che vede l’ascesa del giovane padrino ne registra anche la crisi e il crepuscolo lordo di sangue. L’autore solidarizza con il personaggio fino alla fine, senza negare l’orrore dei suoi delitti ma lasciando intatta la grandezza dell’uomo: e ad attorniarlo brillano figure (la moglie Fausta che farà uccidere in modo orribile, i genitori Elena e Costanzo, il predecessore e mentore Diocleziano, gli altri boss della tetrarchia) indimenticabili per passioni e tinte forti.
Il rischio di un tale approccio narrativo tanto smaccatamente colloquiale-popolare sta ovviamente nel suo controllo, ma qui la formula complessivamente funziona, a testimonianza di un lungo lavoro di dosaggio e rifinitura. D’altra parte, proprio nella genuina ammirazione di Sarasso per l’invincibile macchina di Roma e il mito dell’imperatore guerriero – non senza qualche retrogusto, talora, di ambiguità e di retorica – Invictus rappresenta una sorta di naturale evoluzione dei romanzi di avventure militari di cui sopra, dei quali fluidifica felicemente il ritmo e rinnova la formula.
Un’operazione però decisamente più eversiva dello schema di genere è quella varata nei due titoli della citata serie Mondadori Il romanzo di Roma a firma della versatile e colta Claudia Salvatori. L’autrice prende in esame due paradigmatiche figure di «devianti» di età imperiale soggette a damnatio memoriae, rispettivamente Messalina (moglie dell’imperatore Claudio) ed Eliogabalo: e sulla base di una vasta serie di letture, affrontando via via i capi d’accusa e mettendo in luce contraddizioni e dubbi delle versioni ufficiali, prova a rimontare i ritratti. Non un gioco sterile al revisionismo, insomma, e non una pretesa di ricostruzione storica in termini probabilistici: ma itinerari che tengono conto della complessità del quadro, del meticciato culturale e religioso considerato con tanto sospetto dagli storici classici, e dei giochi politici che (forse inevitabilmente) condannavano al fallimento schemi alternativi. Nel primo romanzo, Il mago e l’imperatrice. Il volto nascosto di Messalina (comparso in Mondadori «Omnibus», 2010, e tornato negli «Oscar», 2012, pp. 363, € 9,90), la parabola della protagonista e della corte di «irregolari» – mimi, sacerdoti castrati di Cibele, figure della marginalità sociale e sessuale – con i quali esplora nuove tenerezze ma anche il sogno di un mondo senza barriere, si consuma nel segno dell’utopia. Il «mago» del titolo è l’asceta gnostico Simone di Samaria (il Simon Mago degli Atti degli Apostoli, insomma), già discepolo in Oriente della predicatrice Miriam di Betania e in attrito con i cristiani «pietrini» dell’Urbe: e, come Messalina che lo ascolta, sarà destinato a finire malissimo. Se riscritture di vite femminili da «leggenda nera» sono certo frequenti nel romanzo «popolare», non lo è la profondità che Salvatori sa donare al profilo della protagonista, al rapporto con la madre e il marito, a quello con il mondo di socialmente esclusi su cui regna.
Ma anche più estremo è il caso del brillante Il sole invincibile. Eliogabalo, il regno della libertà (Mondadori «Omnibus», 2011, ora in «Oscar», 2012, pp. 406, € 9,90), dedicato alla breve vita del talentuoso, visionario e sfortunato Vario Avito Bassiano, re sacerdote del Deus Sol Elagabalus (l’El Gabal del regno orientale di Emesa) poi imperatore a Roma. Attorno a lui quattro straordinarie figure femminili, le Giulie della dinastia Bassiana, rispettivamente madre e zia, nonna e prozia, segnano il suo destino.
Il principe cerca di importare nell’Urbe il credo del proprio Dio, ne vive gioiosamente libertà e indifferenziazione sessuale, dialoga con i rappresentanti delle fedi (il sapiente Bardesane, il vescovo cristiano di Roma Callisto e il suo avversario Ippolito, l’eunuco Urania Antonina a capo dei Carpocraziani) e raccoglie un piccolo gruppo di innamorati seguaci, si scontra con il senato e con le istituzioni che chiedono guerre e in effetti garantisce un periodo pacifico per tutto l’impero. Cocciuto e un po’ megalomane, pronto alle più sconvolgenti esperienze sessuali ma paradossalmente candido, anche per l’ingenuità radicale della giovanissima età, l’imperatore verrà infine travolto e sostituito; e allo sconcio del suo corpo seguirà una rimozione collettiva, salvo nella memoria dei vecchi amici sopravvissuti. Febbricitante e profondo, Il sole invincibile ha incontrato fortune diseguali: ed è interessante leggere sul web i commenti inferociti di alcuni lettori. Che al di là di qualunque legittima valutazione su un libro, esondano in giudizi curiosamente rancorosi: il titolo Il sole invincibile sarebbe nientemeno che un «plagio» (da un saggio del 2002 che in realtà tratta di Aureliano – mentre, è ovvio, si tratta di una traduzione generica per il Sol Invictus/El Gabal); vi trionferebbe una sessualità troppo esplicita, incompatibile con lo stile di un «buon» libro (viene legittimo domandarsi cosa il lettore si attendesse dalla vita dell’eroe anarchico di Artaud); si tratterebbe di una storia lenta. Certo, in questa parabola densissima di suggestioni antropologiche e religiose, utopica e amara, non troveremo le avventure veloci di guerra e d’azione che tanto pubblico cerca in un romanzo su Roma: ma tali commenti permettono di cogliere, più che caratteristiche oggettive dell’opera, le attese su un genere e su un certo tipo di trame e di eroi. Lasciando sospettare che ancor oggi, svilita l’orgia sacra nel bunga bunga, Eliogabalo incontrerebbe i suoi problemi.
franco.pezzini1@tin.it
F Pezzini è saggista e redattore giuridico