Amori imperfetti
recensione di Paola Iovene
dal numero di settembre 2017
Qiu Miaojin
ULTIME LETTERE DA MONTMARTRE
ed. orig. 1996, trad. dal cinese di Silvia Pozzi
pp. 172, € 14
Calabuig, Milano 2016
“Scriverti significa desiderarti ferocemente”, confessa la narratrice di Ultime lettere da Montmartre, a sottolineare che la scrittura non è che il prolungamento di un desiderio dolce-amaro, un “nodo di sentimenti inconciliabili di odio e amore” impossibile da sciogliere. Ventuno lettere compongono questo libro, alcune prive di destinatario e talora persino di un chiaro mittente, incorniciate da una sorta di prologo ed epilogo. Il romanzo epistolare apre squarci di dolore bruciante attraverso una scrittura intensa, tesa a colmare il vuoto lasciato da un’amante andata via. Diventa poi, a tratti, diario-zibaldone, un archivio personale di ricordi, poesie, appunti e citazioni buttati giù a Parigi tra aprile e giugno 1995, da leggere – su invito dell’autrice stessa – nell’ordine che si vuole, dato che l’amore perduto scompagina il tempo ed è solo in forme frammentarie che lo si può rievocare. Qualcuna delle lettere fa riferimento a un romanzo cui la narratrice sta lavorando, un rimando metanarrativo che confonde realtà e finzione e mette a fuoco un’idea di letteratura incentrata sulla mancanza e sul fallimento dell’atto comunicativo di raggiungere l’amata.
La confluenza tra arte e vita contribuisce a rendere questo testo irresistibile. Ma quello che maggiormente colpisce è la precisione con cui disseziona le spoglie consunte di una relazione e la crudele persistenza del sentimento amoroso, nonché la rivelazione di come sia l’amore stesso a diventare insostenibile e a soccombere, schiacciato da se stesso.
Le conseguenze dell’amore
L’amore, si sa, può rendere insensibili nei confronti dell’oggetto amoroso. Nonostante Xu abbia tradito, l’autrice di queste lettere vorrebbe ancora darle “un baricentro”. Che l’altra non voglia sentirne più non conta. Agli occhi dell’amante che scrive, l’amata lontana ha bisogno di lei, solo che non lo sa: “La tua vita intima è in simbiosi con la mia e, a meno che tu non voglia bloccarla, castrarla, a parte me, nessuno può accontentarla”. E ancora: “Il problema non è che io non accendo l’eros in te, ma che il tuo corpo non è ancora pronto… non è vero che non mi hai mai amato, impossibile”. Il dolore della perdita genera cecità nei confronti dell’altro: la presunzione di conoscere i bisogni e i sentimenti dell’amata porta alla violenza contro di lei e infine contro se stessi, nel momento in cui quella presunzione si rivela infondata.
È l’acuta consapevolezza delle conseguenze dell’amore ferito ciò che più attrae in questo libro: l’analisi impietosa del dirompente bisogno d’amore – un “seme (che) non ha avuto modo di crescere, anzi ha succhiato la mia linfa” – che riduce Zoë, la narratrice-narratore dalla sessualità fluida, che a volte si definisce col pronome femminile e altre maschile, a una furia distruttrice e autodistruttrice. Dopo che la sua angoscia e il senso d’inadeguatezza hanno fagocitato la devozione dell’amata, Zoë tenta di rimediare ai danni: chiarisce le sue responsabilità, promette di cambiare, implora e minaccia, ma fondamentalmente si scopre incapace di rinunciare al desiderio di essere “tutt’uno”: “Nella mia vita voglio un amore profondo e totale – voglio l’eternità”.
Altri amori ci sono, ma sono tutti imperfetti: Yong, che si prende cura di lei durante un rigenerante viaggio a Tokyo; Qingjin, cui spera di potersi dare dopo essersi “reincarnata” in una nuova Zoë “originale, spensierata, aperta, sciolta e carina, bella”; e Laurence, volontaria del centro Lgbt di Parigi, di cui talvolta assume il punto di vista e la voce e con cui condivide momenti di passione. La vicinanza di tante compagne non la salva da un crescente senso di solitudine, interrotta solo di tanto in tanto da un’effimera euforia per lo più ispirata dai film di Theo Angelopoulos. Il cinema, i libri e la scultura offrono temporaneo rifugio, ma non tanto da tener lontano il pensiero del suicidio, presentato come una decisione razionale, espressione estrema di amore per la vita.
L’epigrafe che apre il libro, tratta dal racconto Amore di Clarice Lispector, fornisce una chiave di lettura incentrata sulla tensione tra destino e scelta. Il racconto di Lispector narra di una donna che ripensa alla sua tormentata gioventù, da cui “era gradualmente emersa per scoprire che si viveva anche senza la felicità… Aveva elaborato in cambio qualcosa di finalmente comprensibile, una vita da persona adulta. Così lei aveva voluto e scelto”. La narratrice di Ultime lettere, al contrario, non riemergerà dall’esaltazione della gioventù, forse perché incapace di liberarsi del sentimento incomprensibile che le ha mutilato l’anima, ed incapace di scegliere: “Non ho avuto margine di scelta. La mia sorte si è decisa nell’istante in cui ti ho incontrato”.
La scrittura di Qiu Miaojin, autrice taiwanese morta suicida a ventisei anni, a Parigi, il 25 giugno 1995, è inquietante, diretta, spudorata. La splendida traduzione di Silvia Pozzi rende appieno il ritmo febbricitante di un monologo interiore che procede per contraddizioni e paradossi, alternando autoanalisi e domande disperate, riflessioni sui compiti dell’artista e ossessive invocazioni dell’amata. La destinataria di queste missive sembra reagire solo con un enigmatico silenzio: “Non riesco più a parlarti tramite il libro”, si lamenta la narratrice, delineando una condizione di incomunicabilità cui solo una soluzione estrema sembra poter porre rimedio.
iovene@uchicago.edu
P Iovene insegna letteratura cinese all’Università di Chicago