Quando si è fottuto il Perù?
recensione di Stefano Tedeschi
Mario Vargas Llosa
ROMANZI
a cura di Bruno Arpaia, trad. dallo spagnolo di Enrico Cicogna
pp. CXL-1638, € 80
Mondadori, Milano 2017
Dopo molti anni un autore ispanoamericano approda di nuovo nei “Meridiani”: il primo volume dei Romanzi di Mario Vargas Llosa si unisce a quelli di Borges e García Márquez e segna l’approdo del Premio Nobel 2010 nell’olimpo mondadoriano. Approdo di certo ben più che necessario, vista l’ampiezza e il valore dell’opera del peruviano – e che forse altri autori di quell’area geografica meriterebbero (quando un “Meridiano” di Fuentes, di Paz, di Arguedas, di Carpentier, solo per citare qualche nome?) – e che permette al lettore italiano di apprezzare in un solo volume i tre grandi romanzi pubblicati negli anni sessanta, che marcarono in maniera indelebile tutto lo sviluppo successivo della sua narrativa.
Quei tre romanzi – La città e i cani (1963), La Casa Verde (1966) e Conversazione nella “Catedral” (1969) – si pongono infatti come momenti inaugurali di un percorso che poi ne riprenderà temi e modalità di scrittura, ampliandoli e a volte superandoli, senza però mai distaccarsene totalmente e mantenendosi quasi sempre su altissimi livelli di risultati estetici. Nel decennio del “boom” la critica fu sorpresa dall’inattesa maturità di un giovane scrittore che nel volgere di nove anni diede alle stampe tre straordinari romanzi, uno diverso dall’altro, e il lettore di oggi può ancora farsi catturare dai perfetti ingranaggi narrativi attraverso i quali Vargas Llosa affronta temi e problemi che non sono certo scomparsi dall’orizzonte delle società contemporanee.
L’ampio affresco urbano di La città e i cani, incentrato sulle esperienze dei giovani allievi di un collegio militare, microcosmo di un mondo gerarchizzato e disumano, fu l’esordio folgorante, e inaugurò una modalità narrativa polifonica riproposta poi a più riprese da Vargas Llosa, ma nello stesso tempo avviò una riflessione inesauribile sui meccanismi del potere e sulla sua violenza, che qui è rappresentata nell’ambiente chiuso e opprimente dell’istituzione militare. La storia dei numerosi personaggi si struttura secondo una serie di corrispondenze binarie: il collegio e la città; i cadetti e gli ufficiali; due gruppi di giovani contrapposti, in una sorta di tempo sospeso in cui le personalità in formazione dei cadetti vengono apparentemente sottoposte a una disciplina severissima. In realtà un’altra opposizione domina il romanzo: quella tra un rigido formalismo autoritario e la generale corruzione che si vive all’interno del collegio, contraddizione che avrà conseguenze tragiche e segnerà la vita dei protagonisti.
Questa precisa composizione binaria è affidata, come si è detto, a una molteplicità di voci narranti, un coro che proviene dall’interno dell’istituzione e sembra volerne demolire l’illusoria compattezza. In questo primo romanzo Vargas Llosa sperimenta anche quella forma peculiare di realismo che si ritrova poi in tutti e tre i romanzi di questi anni, e che lo scrittore peruviano sintetizzerà in una breve frase: “Sono uno scrittore realista perché parto sempre da una mia personale esperienza”.
Se dunque La città e i cani si richiamava al periodo adolescenziale passato in un collegio militare, la trama di La Casa Verde nacque da un viaggio nell’Amazzonia peruviana, e dall’incontro con una inattesa alterità. La casa verde vede infatti al centro della costruzione narrativa la mescolanza etnica e sociale del Perú nel multiforme universo amazzonico, con storie di personaggi tutti ai margini della società: il bandito di origine giapponese Fushía, le prostitute della Casa Verde, i militari del presidio e le suore di Santa Maria de Nieva, gli indios jíbaros, huambisas, shrapnas, i giovani marginali o il parroco di Piura. Vargas Llosa riparte dalle Cronache della Conquista, da quel tentativo originario di comprendere l’altro attraverso schemi di pensiero europei, operazione resa ambigua dalla natura stessa dell’universo che si cercava di capire. Lo scrittore peruviano assume però quella realtà con tutte le sue contraddizioni, forse non la capisce nemmeno lui fino in fondo, ma non cerca di rinchiuderla dentro una struttura narrativa chiusa e ne libera il potenziale di contaminazione e di sovversione in un romanzo polifonico privo di un centro di gravità. Al centro di La Casa Verde si trova infatti l’alterità diffusa e invincibile della gente che vive tra i grandi fiumi, quel suo mescolarsi promiscuo che alla fine contagia anche i rappresentanti dell’ordine. Il personaggio chiave è allora Bonifacia, la giovane aguaruna prima ospite obbligata della Missione di Santa Maria de Nieva, poi serva in una casa signorile, sposa di un sergente e infine prostituta alla Casa Verde di Piura. Il suo percorso diventa così altamente simbolico, e riassume il destino degli indios, dalla violenza dei conquistatori alla conversione forzata, allo sfruttamento economico della modernità. Bonifacia rappresenta l’alterità allo stato puro, concepita come oggetto, ma che nonostante ciò conserva una sua personalità indomabile, resistente a tutte le disgrazie: quel rapporto non si esaurisce infatti solo in una relazione di dominio ma è in grado di cambiare chiunque entri in contatto con essa: Bonifacia non è infatti un personaggio solo passivo, ma in qualche modo incide sulla realtà, tenta di modificarla a partire dalla propria irriducibile diversità, come fa don Anselmo, musicista, fondatore della Casa Verde, un indio dai caratteri quasi mitologici, che rivendica il proprio essere “selvatico” di fronte al disprezzo dei cittadini di Piura e alle maledizioni del parroco.
Dagli enormi spazi amazzonici si torna al mondo urbano di Lima in Conversazione nella “Catedral”, romanzo vasto e multiforme, che combina in modo inestricabile storie private e vicende pubbliche negli anni della dittatura di Odría, riprendendo anche qui la struttura polifonica, arricchita da una ancora più attenta ricerca sul linguaggio. Tutto il romanzo sembra nascere dalla domanda che colpisce il lettore come un pugno fin dalla prima pagina: “In che momento si era fottuto il Perù?”. Il protagonista, Santiago Zavala, “Zavalita”, giornalista deluso e frustrato cercherà di rispondere a questa domanda in una lunga conversazione con l’ex-autista del padre, un ministro nei governi dittatoriali, ripercorrendo oscuri percorsi della memoria, e scoprendo l’impossibilità di cambiare, di uscire da un “pozzo di pessimismo nerissimo” dove “non c’è più innocenza, non c’è più speranza”. A partire da un bar di pessima reputazione i due protagonisti ricostruiscono un tempo della storia peruviana, e della propria personale, attraverso la quale emergono tutte le profonde questioni morali che un potere dittatoriale pone agli individui e come esso riesca a infettare, come un’epidemia, ogni strato sociale. In Conversazione le linee narrative si moltiplicano e si intersecano quasi all’infinito e Vargas Llosa sperimenta quel trattamento del tempo che poi spiegherà aver appreso dal cinema, quel “trattare il tempo come se fosse lo spazio”, spostando e mescolando elementi per creare un effetto di complessità capace di riflettere il caos dell’ochenio di Odría, e la sensazione di vuoto e di mancanza di senso che lasciò dietro di sé. Vargas Llosa non ripeterà più tali arditi sperimentalismi narrativi, ma nei romanzi successivi saprà portare avanti una riflessione sempre più matura sul potere, sull’alterità, sulla violenza, che nei primi tre libri aveva così magistralmente inaugurato.
stefano.tedeschi@uniroma.it
S Tedeschi insegna lingua e letteratura ispanoamericana all’Università La Sapienza di Roma