Javier Cercas e Il sovrano delle ombre: redimere l’irredimibile

Prozio falangista

recensione di Gabriele Ranzato

dal numero di settembre 2017

Javier Cercas
IL SOVRANO DELLE OMBRE
ed. orig. 2017, trad. dallo spagnolo di Bruno Arpaia
pp. 296, € 18
Guanda, Milano 2017

Javier Cercas - Il sovrano delle ombreHo sempre apprezzato i romanzi di Cercas, capaci di farmi superare l’inclinazione dello storico a guardare con diffidenza invidiosa le opere di fiction che si “intromettono” nei fatti del passato, insinuando nel lettore una loro chiave interpretativa che si cristallizza nel senso comune del grande pubblico molto più saldamente di quanto possano fare le opere dei professionisti della storiografia, senza averne lo stesso entroterra di studi e documentazione. Questo perché i personaggi dei suoi libri sono sempre stati per me molto seduttivi, fino a farmi mettere da parte la storia “vera” di fronte alla loro “vera” umanità, fatta delle contraddizioni e dei densi chiaro-scuri che costituiscono l’anima più intima degli uomini del passato e del presente.

Così è stato per il Miralles di Soldati di Salamina che pur vinto e in ritirata si abbandona al suo istinto di pietà, rinuncia alla vendetta e risparmia il gerarca falangista destinato alla fucilazione nascosto in un anfratto boscoso come un cerbiatto in fuga, fingendo di non vederlo; ma poi no, ormai vecchio e vinto una seconda volta perché dimenticato come la causa comunista per la quale aveva combattuto, quasi si pente del suo “bel gesto” e dice senza remore che se c’era qualcuno che meritava di essere ammazzato era proprio quel gerarca. Lo stesso si può dire della figura eponima de L’impostore, un personaggio in prima istanza spregevole – e forse anche in ultima – capace di spacciarsi, mediante ogni tipo di falso e menzogna, come reduce di un campo di sterminio nazista, e in quanto tale rispettato, onorato, sovraesposto nell’«era del testimone», ma nel quale lo scrittore vede, con pietosa comprensione, anche il percorso estremizzato di molti spagnoli che non solo hanno subito, ma si sono anche adattati al regime franchista, e cercano il superamento di quella mortificazione, attraverso un preteso passato di militanza o fronda antiregime. La stessa figura di Adolfo Suárez di Storia di un istante ha questa ambivalenza, che ne fa, al di là della corrispondenza o meno alla sua autentica personalità, un grande personaggio letterario vittima di se stesso, virtuoso artefice del ritorno della Spagna alla democrazia, perché così gli aveva suggerito la sua intelligenza, ma incapace di emanciparsi dalla sua intima adesione al franchismo, alla sua mentalità e ai suoi metodi, che finiranno per perderlo.

In questo mettere a fuoco la duplicità di molti uomini, lo scuro dei “buoni”, il chiaro dei “cattivi”, in Cercas sembra predominare il desiderio di riscattare i secondi, di riconciliarsi con loro. In particolare con i suoi genitori. Nelle ultime pagine di Storia di un istante, compare suo padre, un uomo decisamente conservatore, cattolico e suarista convinto, con cui ha avuto accese divergenze politiche; e l’autore scrive di avere scritto quel libro per cercare di capirlo, perché lui, ormai morente, lo leggesse e sapesse che alla fine suo figlio aveva compreso di non avere avuto così tanta ragione e che lui non era stato così tanto in errore. Questo suo ultimo romanzo è qualcosa di più: un’offerta a sua madre, un’opera di redenzione del suo passato familiare in un clan parentale, ultraconservatore e falangista, di Ibahernando, un paese dell’Estremadura. Ma, per quanto sia comprensibile voler tornare in armonia con genitori ormai anziani, con cui magari si è tanto litigato, non si può redimere l’irredimibile. Lo può fare l’affetto nonostante tutto, non una scrittura di piccola e grande storia che suona vuota, perché la compiacenza ne è il filo conduttore. Cercas tuttavia ci ha provato, con lo strumento già sperimentato dell’inchiesta personale, che, sebbene costituisca gran parte del fascino dei suoi romanzi, comincia ad essere un cliché di cui sta diventando prigioniero.

Eroe familiare e personaggio indigesto

La figura centrale di questo libro è Manuel Mena, lo zio di sua madre, con cui lei aveva convissuto a lungo durante l’infanzia nella grande casa dei nonni paterni, essendo da lui vezzeggiata come la nipotina preferita. Il giovane era un falangista così appassionato che allo scoppio della guerra civile va subito volontario a seguire il corso accelerato per gli alféreces provisionales – tenenti straordinari di complemento –, risultando così bene addestrato che gli viene affidato il comando di un reparto di truppe di colore di prima linea, i Tiratori dell’Ifni, con cui affronterà come forza d’urto alcuni dei principali fatti d’arme della guerra. Finché, dopo essere sopravvissuto a tanti pericoli, cadrà in Catalogna, nel settembre del 1938, durante la battaglia dell’Ebro. Da quel momento Manuel si trasforma nell’eroe familiare che popola l’infanzia di Cercas soprattutto attraverso i racconti e l’aneddotica celebrativa della madre, che pure ignora tutto delle gesta belliche dello zio. A lungo quella figura è stata per lui, dall’età della sua scelta antifranchista, un personaggio indigesto, la cui fotografia di glorioso ufficialetto, in bella mostra per settant’anni nel soggiorno della sua casa di paese, ha rappresentato il «simbolo perfetto, funereo e violento di tutti gli errori e le responsabilità e la colpa e la vergogna e la miseria e la morte e le sconfitte e la paura e il sudiciume e le lacrime e il sacrificio e la passione e il disonore dei miei antenati».

Come districarsi allora dal viluppo di questo amalgama? In passato si presume che lo scrittore lo abbia fatto con una netta ripulsa. Ma ora, nel suo romanzo, in primo luogo lo fa attraverso una deprecazione dell’errore che classi medie e basse del suo paese d’origine avrebbero fatto nel credersi nemiche, mentre avrebbero dovuto allearsi per combattere le classi dominanti di sempre, per lo più grandi proprietari che vivevano in città. Una tesi singolare, che sfida la cronaca della durissima lotta di classe che durante la Repubblica le aveva opposte, secondo quanto Cercas stesso racconta, e l’orrore che in ogni dove e in ogni tempo hanno avuto le classi medie – che nel suo paese peraltro erano alte – di sprofondare nella proletarizzazione, preferendo perciò allearsi con le classi dominanti. Ma comunque scontato quell’”errore”, c’è molto altro in cui ingegnarsi per realizzare l’”operazione redenzione”.

Per riuscirci l’autore vorrebbe far conto sulla gioventù di Manuel – 17 anni – che lo ha fatto partire in “buona fede” per la guerra di Franco, una controrivoluzione preventiva in cui si fa piazza pulita di ogni avversario, anche dei democratici “germi di tutti i mali”. E il ragazzo è così sinceramente appassionato di quella causa da esortare altri giovani del paese a unirsi a lui con un discorso di cui Cercas ha trovato il testo autografo. Nulla ci dice invece di una sua possibile partecipazione alle purghe sanguinose dei “rossi” che pure in paese vi sono state. Le pagine più impressionanti del libro sono infatti quelle dell’intervista che l’autore fa a un uomo molto anziano del pueblo, che ha visto prelevare in casa suo padre dai falangisti per essere abbattuto poco dopo in qualche viottolo, il quale poi è stato costretto a combattere nell’esercito franchista. Il vecchio risponde a stento, dopo tanti anni dalla fine della dittatura non è sicuro ancora di poter parlare –  soprattutto con un rampollo di quella famiglia, aggiungerei – e alla domanda stupida «E’ stata dura la guerra?» replica solo accennando un amaro sorriso.

Per contrappeso l’autore mette in campo a favore di Manuel altre risorse assolutorie, come l’aneddoto sulla sua generosità, per la quale ha preteso dalla nonna che il suo attendente moro alloggiasse in casa anziché nella stalla come lei voleva. Ma l’elemento chiave con cui l’autore vuole conseguire il suo intento è la testimonianza de relato in cui gli viene raccontato che Manuel, in convalescenza in paese per rimettersi da una ferita, ha un teso confronto con il fratello maggiore, in cui gli dice di essere stanco della guerra, e che vi è andato e vi tornerà solo per non dare un dolore alla madre, ma che sarebbe toccato a lui di andarvi. Questo basta allo scrittore per dedurne che egli non era solo stanco di guerra, come sarebbe perfettamente comprensibile per chiunque come lui avesse passato un anno intero sempre in prima linea, e per sentire che quel suo ritratto cessava di essere il groppo all’anima che gli aveva sempre provocato, per divenire la semplice immagine di un «ragazzo orgoglioso e deluso dai suoi ideali e un soldato sperduto in una guerra estranea, che non sapeva più perché combatteva».

Per accentuare la dissociazione, i ripensamenti di quel lontano prozio, l’autore scrive «guerra ajena», che più che estranea significa che non gli apparteneva più, che quindi non sentiva più come sua. Ma non ci sono altre prove per intensificare questa illuminazione, per dimostrare la sua sopravvenuta freddezza per la causa franchista. Ma a Cercas basta per dare il via libera alla sua ricerca degli ultimi giorni di vita e di morte di Manuel, fino al ritrovamento della casa in cui è spirato, dopo qualche giorno di agonia, nel retrofronte dell’Ebro. Pagine piuttosto noiose che si coronano con la visita dell’autore in quel luogo insieme alla madre in un tripudio di riconciliazione.

In definitiva mi sembra che anche sul piano narrativo questo romanzo di Cercas sia meno godibile dei precedenti. Ma forse mi fa velo il fatto che, per quanto personalmente incline a comprendere la paura della rivoluzione, non posso sentirmi in consonanza con la reazione fascistissima degli antenati dell’autore.

ranzato.gabriele@fastwebnet.it
G. Ranzato ha insegnato storia contemporanea all’Università di Pisa

Nel numero di Settembre 2017, in Primo Piano, anche Simone Pollo recensisce Il sovrano delle ombre di Javier Cercas.