Dalla parte sbagliata
recensione di Simone Pollo
dal numero di Settembre 2017
Javier Cercas
IL SOVRANO DELLE OMBRE
ed. orig. 2017, trad. dallo spagnolo di Bruno Arpaia
pp. 296, € 18
Guanda, Milano 2017
“È questo il paradosso che definisce i romanzi del punto cieco; e anche quasi tutti i miei romanzi. Il meccanismo narrativo che li presiede è in fondo simile. In qualche momento del loro sviluppo viene formulata una domanda, e il resto del romanzo consiste, in forma più o meno visibile o segreta, in un tentativo di risposta, ma alla fine la risposta è che non c’è risposta”. Così, in Il punto cieco (Guanda 2016), Javier Cercas, forse lo scrittore più “filosofico” attualmente in circolazione, riflette su cosa è per lui scrivere romanzi e sui suoi modelli letterari. A differenza dei precedenti romanzi, nei quali questo punto cieco è in una storia che Cercas osserva, scava e racconta in terza persona, in Il sovrano delle ombre questo punto ambìto e inarrivabile si trova dentro l’autore stesso.
Il libro è il tentativo di rendere conto della vita, delle scelte e della morte di Manuel Mena, prozio dell’autore e giovane falangista caduto diciannovenne nella sanguinosa battaglia dell’Ebro durante la guerra civile spagnola. Mena è un fantasma nella storia famigliare di Cercas, un eroe per il quale si prova vergogna perché caduto “dalla parte sbagliata”. Ammirazione e rimozione circondano il ricordo di questo giovanissimo sottotenente, le cui motivazioni per gettarsi in quella guerra come volontario sfuggono a Cercas. Lo sforzo di colmare questa ignoranza, di illuminare questo punto oscuro, si rivela sin da subito non il prodotto di una semplice curiosità intellettuale. Il buio che avvolge la vita del suo antenato è una ferita aperta nella stessa identità di Cercas. È questo il fulcro intorno al quale ruota il romanzo: con un movimento contrario a quello del romanzo di autofiction, in cui la figura dell’autore viene manipolata e piegata agli scopi della finzione narrativa fino a farla diventare personaggio, Cercas cerca di illuminare i punti oscuri di se stesso, cercando la “verità” su una storia irrisolta del suo passato famigliare.
Siamo i nostri antenati come saremo i nostri discendenti
La ragione della connessione profonda fra quella storia passata e l’identità di chi cerca di raccontarla si disvela gradualmente nel romanzo. Si dipana mentre le ricerche di Cercas circondano di dettagli la figura di Mena, sfumata ed enigmatica come appare nel suo unico ritratto fotografico conservatosi (o forse l’unico mai scattato a un uomo morto troppo giovane per potere averne altri), una istantanea che lo ritrae nella divisa dei Tiradores dell’Ifni, l’unità di soldati scelti in cui era arruolato. A mano a mano che nel romanzo si accumulano i ricordi dei pochi testimoni ancora in vita e le informazioni dei documenti che raccontano frammenti della sua vita di soldato, non si scrive solo la biografia del giovane falangista, ma si chiarisce anche perché la sua vita sia così importante. Il racconto della storia di Mena non è, alla fine, un tema che Cercas si è scelto da sé, ma – come gli dice un suo interlocutore – “è il tema che ha scelto te”.
La ragione è che la nostra identità, quello che siamo e cerchiamo di essere – o di non essere – non è mai opera di una nostra volontà autonoma che opera nell’isolamento. Ciò diventa chiarissimo alla fine del libro, quando finalmente Cercas conduce la madre, per lui la testimone più importante, nella casa che durante la guerra fu trasformata in ospedale e dove Mena visse le ultime ore della sua breve vita. In queste pagine, dense e commoventi, non si illumina il punto oscuro, ma si comprende la materia di cui esso è fatto: “Con un brivido di vertigine pensai che nessuno muore, pensai che siamo fatti di materia e che la materia non si distrugge e non si crea, si trasforma soltanto, e che non scompariamo (…) e con le loro molecole ereditiamo ciò che furono, ci piaccia o no, siamo i nostri antenati come saremo i nostri discendenti”. Il confronto con il passato non è l’esercizio di una curiosità, ma rivela ciò di cui siamo fatti.
La responsabilità che possiamo provare per le azioni sbagliate di chi ci ha preceduto (un tema su cui Cercas si mette nella scia di Hannah Arendt) non è il frutto di un ragionamento astratto, ma è un sentimento di dissonanza. Il riconoscimento che ciò che oggi noi siamo è possibile solo grazie a coloro che ci hanno preceduto entra in conflitto con la disapprovazione delle loro azioni. Il tentativo di farsi carico di questa dissonanza, e il comprendere il passato che la genera, non è un’operazione meramente intellettuale. Se una pacificazione è possibile, lo è solo attraverso un percorso come quello compiuto da Cercas sulle tracce di Manuel Mena, ovvero per mezzo del racconto di chi è stato testimone di quelle storie e dell’esperienza concreta dei luoghi in cui sono accadute. Solo così, attraverso relazioni concrete con persone e luoghi, è possibile una simpatia, comprensiva ma non indulgente, verso chi è stato prima di noi e al quale, nel bene e nel male, dobbiamo ciò che siamo.
simone.pollo@uniroma1.it
S. Pollo insegna bioetica all’Università La Sapienza di Roma
Sul numero di Settembre 2017, nella sezione Primo Piano del giornale, anche lo storico Gabriele Ranzato recensisce Il sovrano delle ombre di Javier Cercas.