La bellezza del declino
recensione di Gabriella Bosco
dal numero di luglio-agosto 2015
Colette
LA STELLA DEL VESPRO
trad. dal francese di Angelo Molica Franco
pp. 267, € 15.50
Del Vecchio, Roma 2015
Alla stella che si leva quando è prossima al tramonto, Vespro (il terzo nome di Venere), Colette associa la bellezza del suo declino, a cui dedica un libro, come ha fatto con ogni stagione della sua lunga vita. La guerra si è conclusa da poco, echeggia ancora negli animi. Quando escono a puntate su “Elle”, dal novembre del 1945 al gennaio del 1946, i souvenirs che prendono vita in L’Etoile Vesper (poi raccolti in volume, rimasti inediti in italiano e ora tradotti con passione da Angelo Molica Franco per Del Vecchio) mutano le parole in cose per far sì che ciò che manca diventi presente. Bloccata dall’artrite, costretta in casa dalla malattia, la scrittrice trasforma le stanze del suo appartamento parigino affacciato sui giardini del Palais Royal (lo studio tante volte fotografato, il bureau scuro, un gatto a scrutare la mano rugosa che gratta la carta con il pennino, qualche fodant, biscotti, acqua sciroppata) in una sorta di caleidoscopio dentro al quale guardare perché vi si animi un teatro d’ombre, ma d’ombre magicamente colorate, di acquarelli viventi, immagini parlanti. È questa la singolare facoltà delle pagine di Colette: raccontati da lei, i ricordi sbocciano, quasi si creano a mano a mano che la scrittura li evoca. Colette parla di episodi accaduti, ma setacciandoli nella memoria li reinventa, trasfonde in loro carnalità e suono. Ricopre con la sua scrittura quella invisibile, a inchiostro simpatico, del tempo. E da quei segni tracciati il mondo salta fuori come in un immaginario e melodico pop-up animato.
C’è molta notte, in questo libro
l titolo, La stella del Vespro, non è solo metafora. C’è molta notte, in questo libro. Ma notte fervida, frizzante. Da quella respirata mettendo la testa del letto sotto le finestre aperte nella bella stagione, per guardare la volta celeste nell’attesa del sonno, alla notte vissuta da chi la usa per lavorare: come la passeggiatrice Renée, figlia della sera, transitata attraverso la guerra che le è costata l’avvenenza ma non l’ha privata del mestiere, amante, confidente e informatrice insieme; o la stessa Colette, a lungo redattrice in vari giornali, “L’Echo de Paris”, “L’Eclair”, “Le Matin”, di cui ci svela i segreti pennellando la vita maschile che brulica dietro alle pagine di un quotidiano, insaporendola di aneddoti gustosi. «I piaceri sciocchi, scrive, sono i più duraturi». De fil en aiguille, per libere associazioni, mentre l’insonnia di oggi sfuma, torna infatti a vibrare la smania notturna, e tornano a galla vivaci cene molto speziate, eccezionalmente alcoliche. Colette continua, intanto, a fornire ricette. Annusare la coppa e guardarla due volte prima di bere non è una cautela che l’età impone, bensì regola di vita, dunque, per lei, di scrittura. Altrettanto lo è l’uso del pepe, «il vero pepe, l’incendio allegro, salutare ai reni». Quello gustato a Tunisi che ravviva il cous-cous, tra pezzetti di carne, uva di Malaga, cipolle dolci e carciofi teneri. Il rogo di pepe. «Fidatevi di lui senza timori», consiglia Colette.
«Ho creduto al viaggio anche per mille chilometri di strada ferrata», aggiunge poi, «e credo alla solitudine quando chiudo alle mie spalle la porta della mia stanza». In effetti qui sta il punto. Colette che non può più camminare se non a fatica, che ce la fa appena ad andare ad aprire quando qualcuno suona, che riceve molte visite di amici o amiche, celebri e non – dal vicino di casa Jean Cocteau al Giovane Lattaio (il bimbetto di tre anni la cui statura ancora non gli permette di arrivare al campanello e che si annuncia calciando la porta, quando viene a portare alla vecchia signora il suo tazzone di latte pur di non berlo lui), da un Truman Capote ventitreenne ai reporter fastidiosi – realizza, scrivendo, la magia della serenità raggiunta. La sperimenta e la mette alla prova. L’attuale compagno, il terzo marito, l’ultimo, Maurice Goudeket, molto più giovane di lei ancora una volta, è ansioso, quando esce ha timore di lasciare Colette senza soccorso. Lei invece, pur amandolo teneramente, pur avendo molto sofferto per il suo arresto e durante la sua prigionia in un campo, non aspetta altro. Perché altri visitatori si affollano, quelli della pagina, e Colette vuole essere sola per intrecciare con loro conversazioni e danze arabescate, agile nella sua malferma vecchiaia come mai si è sentita, neppure quando si esibiva a seno nudo in palcoscenico.
Molti di coloro che vengono a trovarla non ci sono più. La mamma Sido con il suo bell’abito blu a spighe bianche usato per foderare il manoscritto del libro su di lei; il fratello Léo, il silfo, che aveva continuato a nascondere la sua età matura in un corpo infantile e non aveva mai smesso di applicare alla realtà imprecisa i suoi sogni, tutti molto precisi invece. Come quando, sessantatreenne, era venuto dalla sorella con il pianto pizzicato in gola per essere stato a vedere i luoghi dei loro anni spensierati a Saint-Sauveur-en-Puisaye e avervi trovato il cancello di quella che era stata casa loro oliato. Reso muto, privato del suo canto. Ma Colette, scrivendo, gli aveva restituito quella voce. Ed era stata lei, raccontando quel Î-i-iann per scritto, a farlo tornare vero. Anche per questo La stella del Vespro, cesellata come un gioiello da Del Vecchio, al pari di Prigioni e paradisi e delle Ore lunghe della stessa autrice, è una preziosa, una rosata veilleuse.
gabriella.bosco@unito.it
G Bosco insegna letteratura francese all’Università di Torino
“Colette, reporter di guerra”: sul numero di marzo 2014 Gabriella Bosco commenta Ore lunghe, un altro gioiello della scrittrice francese.