Sogni di evasione e paralizzante immobilismo
di Filippo Polenchi
Bonnie Nadzam
LIONS
trad. dall’inglese di Leonardo Taiuti
pp. 288, € 15
Black Coffee, Firenze 2017
“Leigh scosse la testa. Nessuno poteva restare sano di mente in quel posto fatto di immobilità, vuoto e luce inesorabile”. In Lamb (2015, ed. Clichy, trad. dall’inglese di Leonardo Taiuti) Bonnie Nadzam mostrava il divorzio definitivo e lacerante fra l’Homo Americanus e la Natura, con patimenti di figli. Lions è il racconto di come si fabbrica un mito: dal momento che è impossibile ricucire lo strappo con le proprie origini, gli abitanti di Lions rimangono intrappolati in una ragnatela di leggende e storie.
Gordon e Leigh sono due adolescenti in procinto di partire per il college. La loro vita procede in mezzo alle sparute abitazioni della città, fra sterpaglie, il diner di May, l’officina di John Walker, il padre di Gordon, lo zuccherificio abbandonato. Il loro orizzonte sono le lande desolate del Colorado, molto più opprimenti delle badlands di Springsteen. Le loro giornate sono pulite, apparentemente serene. Ma le cose cambiano quando muore John. È allora che Gordon si fa sempre più spettro, con viaggi al Nord ogni volta più lunghi. Il ragazzo si renderà irreperibile per tutti, per sua madre Georgianna, per Leigh. I luoghi sono ferite che allontanano i lembi di carne oscenamente esposta, ma che legano sangue a sangue. E Nadzam ci mostra gli artigli del mito, un’assemblea di corpi in via di sparizione che cerca di trattenere i propri giovani affinché non ci sia contagio o redenzione, affinché la leggenda, che è l’altra faccia della maledizione, non si spezzi.
Per raccontare questa elegia americana Bonnie Nadzam usa una lingua ricca, efflorescente, che impasta un linguaggio aulico e solenne, quasi sacro, con un materiale dove dominano l’aridità, l’essiccazione, la trafittura dei raggi solari che, come frecce divine, si scagliano sui personaggi inermi, teneri e disperati, ma perlopiù ciechi. Non riescono a vedere oltre l’allucinazione del barbaglio, i padri di Lions: non conoscono alcun futuro, solo un eterno presente appiattito da dare ai propri figli. Al secondo romanzo l’autrice dimostra di essere una narratrice portentosa, affascinata dall’ambientazione rurale, il viaggio naturale, l’attenzione maniacale per i dettagli e le preparazioni (che si tratti di panini imbottiti o di saldature), l’uso del racconto per sommario che si riallaccia a una tradizione orale. Lions è un romanzo dolente, crepuscolare, pieno di quell’infinita tristezza che solo le cose prossime alla fine hanno.
F. Polenchi è redattore editoriale