Vivere di sogni è un’utopia
recensione di Beatrice Manetti
dal numero di ottobre 2015
Maurizio Maggiani
IL ROMANZO DELLA NAZIONE
pp. 297, € 17
Feltrinelli, Milano 2015
Non s’intitola un libro Il Romanzo della Nazione (proprio così, maiuscole comprese) senza metterci almeno un po’ di ironia. Di autoironia, anche. Qui per fortuna c’è molto di entrambe, a cominciare dal fatto che, in deliberata contraddizione con il suo titolo, questo è un romanzo che non c’è per acclarata assenza del suo oggetto; un congegno narrativo messo in scena nel suo farsi, ma più spesso nel suo non volerne sapere di farsi, su una nazione che in un paio di secoli nessuno è riuscito veramente a fare. Eppure ci hanno provato in tanti: mazziniani spiritualisti, mazziniani materialisti, camicie rosse garibaldine, ragazzini scampati a El-Alamein e saliti in montagna nell’inverno del 1944, e tra questi anche un elettricista comunista e melomane che nella vita avrà detto si è no cento parole ma in segreto scriveva poesie, che ha lavorato come un ossesso per cinquant’anni ma non si è perso un corteo del primo maggio, e che alla fine si è portato nel buio nell’Alzheimer il suo segreto di costruttore di nazioni, lasciando al figlio l’enigma di una frase scarabocchiata su un foglio della ASL: “Vivere di sogni è un’utopia”.
Comincia così il romanzo di Maggiani: con la morte di suo padre e la morte del suo progetto: “Avevo in mente di scrivere Il Romanzo della Nazione, questa era la mia ambizione, ma disgraziatamente lo scorso inverno è morto mio padre”. Al figlio non resta che fare per conto proprio, è questo il lavoro dell’orfano. E quale romanzo della nazione potrà scrivere un orfano defraudato della sua fonte principale? Scriverà il romanzo del padre. Solo così può risalire al cuore del Novecento, e anche più indietro, uno scrittore come Maggiani, che non è fatto per il romanzo storico (“I romanzi non si fanno con i documenti, i romanzi si fanno con le voci, per come la vedo io”) ma ha il passo erratico del narratore orale: inseguendo la storia d’Italia e delle sue innumerevoli rivoluzioni mancate nelle pieghe di una biografia ampiamente lacunosa e lungo gli snodi genealogici della propria saga familiare, tra un titanico nonno socialista, una bisnonna guaritrice e maga, uno zio sommergibilista pluriaffondato, di cuore debole ma di robusta immaginazione. Il fatto è che a Maggiani le trame interessano poco. Ciò che davvero gli sta a cuore sono le vite, e siccome ogni vita ne sfiora molte altre, per tenere dietro a tutte non serve un meccanismo narrativo in cui tutto fili liscio, ma una narrazione rapsodica, policentrica, digressiva, disposta a lasciarsi attraversare dall’infinita varietà delle esperienze e al tempo stesso capace di imbastire con tutti quei fili provvisori la rete della memoria collettiva di una comunità. In una parola: epica, nel senso di Benjamin, più che in quello di Wu Ming.
A restaurare un genere defunto si rischia sempre il kitsch, nei casi migliori la maniera. Meccanica celeste, il gemello eterozigote del Romanzo della Nazione, era per lunghi tratti un libro manierato. Questo no, perché qui non c’è soltanto la nobile epopea degli sconfitti ma anche la consapevolezza di quanto sia fragile e imperfetto qualsiasi tentativo di epopea. È a questo punto, e siamo ormai oltre la metà del libro, che il fallito Romanzo della Nazione diventa il metaromanzo del proprio fallimento. I rivoli del racconto si arenano in due incipit scartati – Camillo Benso che una mattina di primavera del 1852 guarda col cannocchiale il golfo di La Spezia e sogna il futuro Arsenale Militare (il romanzo storico che Maggiani non scriverà mai) e una donna palestinese che assiste un moribondo in un ospedale di Magdala (il romanzo che Maggiani ha già scritto: era Il coraggio del pettirosso) – e poi si allargano di nuovo nella commedia umana in miniatura delle migliaia di operai, artigiani, ingegneri, marinai e galeotti che con il loro lavoro, tra il 1862 e il 1869, costruirono dal nulla l’arsenale militare, l’embrione di una nazione mummificato ancor prima di nascere. Quel pozzo senza fondo di storie di vita, che sembra fatto apposta per la disperazione di un romanziere, è il paese dei balocchi del narratore orale; che le saggia, le sbozza, le affianca l’una all’altra senza un ordine apparente, sfidando le leggi del romanzo ben fatto e le aspettative del lettore, “perché ci vuole sempre troppo tempo per tirare su una vita via l’altra, bisogna stare troppo a cercare, si fa troppa fatica. E una pazienza che non ha mai avuto nessuno, mai”. Anche il Romanzo della Nazione, in definitiva, è un’utopia; e la sua massima approssimazione è la foto di gruppo, sempre sfocata e sempre incompleta, dei costruttori e delle costruttrici di nazioni. Questo romanzo mai davvero cominciato è così, paradossalmente, anche un romanzo non finito, o più esattamente senza fine: perché, come la storia, le storie non finiscono mai e vanno dove devono andare.
beatrice.manetti@unito.it
B Manetti è ricercatrice di letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino