Come una specie di cagnetto nero
recensione di Daniele Piccini
dal numero di aprile 2016
Luca Doninelli
LE COSE SEMPLICI
pp. 840, € 23
Bompiani, Milano 2015
Il più recente romanzo di Luca Doninelli, Le cose semplici, si presenta come una scommessa: il grande romanzo in cui far culminare le preoccupazioni e i motivi di un’intera carriera narrativa, l’opera in cui giocarsi tutto. L’estensione del romanzo e i suoi stessi temi impongono al lettore di sottoscrivere un patto impegnativo: dare al testo lo statuto di opera decisiva, accettandone le prospettive estreme. Qui infatti, in sintonia con certa narrativa profetica e con il racconto post-umano di La strada di McCarthy, non si racconta una storia, ma l’ultima storia narrabile: quella della fine della civiltà come la conosciamo e della resistenza, in questo dopo-storia, dell’umano.
Riflessione sulla letteratura in un’opera dalle grandi ambizioni
Ciò significa che anche la letteratura è chiamata a una messa in discussione, a interrogarsi sulla sua necessità. La letteratura che narra la fine e fronteggia il disastro di ogni sistema è sollecitata a rispondere da un fondo estremo di povertà, di nudità. Dunque si tratta di un romanzo impegnativo, per dimensioni e temi, ma non per ricerca di complessità narratologica, né per virtuosismo espressivo. Il piano dell’opera è all’apparenza piuttosto lineare. Il meccanismo applicato per far procedere il racconto è quello del manoscritto, anzi dei manoscritti ritrovati. Scartafacci annotati da un uomo immerso nel disfacimento del mondo, che si rispecchia, disarmato, nella propria residua umanità. Una sola confessione, tra quelle che compongono il libro e fondano la finzione, è invece di sua moglie (protagonista già del racconto del marito), che intercala il suo punto di vista a quello del narratore principale.
Dodò, come lei lo chiama, e Chantal sono i protagonisti della vicenda, funzionali a raccontare un collasso definitivo del mondo. Per vent’anni, quando comunicazioni e collegamenti crollano, rimangono separati, lei a New York a rifondare un’istituzione di tipo universitario, lui a Milano. Città che non sono più città, forme di società che sono ormai esplose li vedono confessarsi sotto la lente ustoria del loro rapporto: lei matematica geniale, lui letterato col sogno di diventare scrittore. Si ritroveranno, ma come trasformati, avendo superato se stessi e la propria leggenda. La trama è, come si diceva, lineare. Si tratta di un romanzo non a intrigo, ma morale, filosofico: una fabula che serve a scandagliare il fondo dell’uomo, rovistando dove tutto giunge a una decisione, a un riconoscimento. Per questo il libro vive di un giudizio acuminato sullo stato delle cose e dell’interrogativo essenziale sulla verità, sul senso ultimo di ogni storia. La parola è una lama che penetra nel vivo di qualunque problema, obbligata dalla costruzione narrativa a caricarsi di una densità semantica ultimativa. Il romanzo azzarda molto, con qualche germe anche manzoniano, e, nonostante alcune zone di debolezza, vince la scommessa e adempie al suo compito: riesce a costringere il narratore (e l’autore) con le spalle al muro. Sapienziale e lenticolare, questa dostoevskijana discesa nel sottosuolo rifà della letteratura una summa drammatica, totalizzante, ma non chiusa in sé, essendo la sua ragione, sembra dire l’autore, nello stare di fronte. Il libro termina sulle parole di Mark, specie di figlio adottivo di Chantal e Dodò, che si chiede le ragioni della scrittura del narratore: “La morte aveva cominciato a fare la sua comparsa accanto a lui, come una specie di cagnetto nero, apparentemente inoffensivo, ma che non se ne andava via. Forse questo era ciò che gli mancava quando, giovane e felice, sognava, senza mai intraprenderla, una carriera di scrittore”.
daniele.piccini@hotmail.it
D Piccini è critico letterario