Illusioni perdute
recensione di Margherita Oggero
Antonio G. Bortoluzzi
VITA E MORTE DELLA MONTAGNA
pp. 141, € 14
Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2013
Un uomo siede desolato davanti alla vecchia casa di famiglia ormai in rovina: è stato appena licenziato dalla ditta dove ha lavorato per più di trent’anni, perché la crisi economica imperversa anche nel Veneto delle mille fabbriche e fabbrichette un tempo prospere e vitali. Giacomo Casal è un uomo sconfitto, non tanto perché teme di non avere un futuro accettabile, ma soprattutto perché si rende conto che il cosiddetto progresso in cui si sentiva inserito non è stato tale. Convinzioni, sicurezze, illusioni: tutte perdute nel crollo del mito di una modernità frettolosa, ignorante e posticcia. E allora anche il proprio passato (e quello di almeno tre generazioni) viene visto da una diversa prospettiva, in cui i valori appaiono rovesciati rispetto a prima e il disagio esistenziale – il male di vivere – palesa finalmente una delle sue cause. Gli anni dell’infanzia di Giacomo sono trascorsi in una povertà decorosa: gli abiti smessi dai cugini più grandicelli, il panino con due sole fettine di salame ben distanziate tra loro, la caramella alla menta come un miraggio da far venire l’acquolina in bocca; e intanto bisogna rendersi utili in casa e in montagna: accudire la sorellina Margherita, spargere l’erba appena tagliata, portare i secchi nella stalla, aiutare il nonno Iaco nella semina del granoturco, mentre il papà muratore lavora a Cortina e torna a casa solo il sabato pomeriggio.
Nella prima adolescenza, al confronto con ragazzi di altra estrazione sociale, sorge l’insofferenza per la propria condizione, per le regole e la mentalità della famiglia, per la scuola concepita come inutile perdita di tempo, mentre nella prima giovinezza l’obiettivo diventa la moto, un lavoro qualunque che frutti soldi, perché solo i soldi permettono a un uomo di sentirsi tale. Giacomo non possiede strumenti culturali per capire se stesso e la realtà che lo circonda, ripete come molti suoi coetanei vacue frasi fatte (è colpa del sistema), la modernità gli appare totalmente positiva (acqua calda nel bagno, piastrelle di ceramica) e non ne avverte le crepe e i guasti. Tuttavia il lavoro in fabbrica è spossante, con i gesti che sono sempre gli stessi, meccanici e ripetitivi, con il rumore che rimbomba nella testa e la puzza che ammorba il respiro, con la solitudine di ogni uomo davanti alla sua macchina. Settimane tutte uguali, ogni lunedì come un incubo, da cui cominciare a emergere soltanto al mercoledì sera, constatando che il grosso è passato e non restano che due giorni prima della pausa.
Adesso, dando le spalle alla vecchia casa, guardando i campi e la vigna abbandonati e inselvatichiti, Giacomo si rende conto che il suo rifiuto delle radici, della storia sua e della famiglia è stata un errore: la montagna è morta e le illusioni anche. Bortoluzzi racconta con sofferente pietà e straordinario vigore espressivo la fine dolorosa di un’epoca di cui non tutto è da rimpiangere, ma di cui qualcosa avrebbe dovuto essere salvato. Un romanzo forte, intenso e direi “necessario”.
margherita.oggero@libero.it
M Oggero è scrittrice