Dandy maledetta, efebo da sfruttare
di Silvia Nugara
dal numero di ottobre 2015
Della vita breve e leggendaria di Annemarie Schwarzenbach (1908-1942) c’è un episodio, spesso ricordato, che la dice lunga su quanto l’immagine di questa scrittrice abbia sin dai suoi esordi preceduto e talvolta addirittura soverchiato il valore dei suoi scritti. Pare infatti che nel 1931, all’uscita de Gli amici di Bernhard, il suo primo romanzo che l’Orma ha recentemente tradotto per la prima volta in Italia, la foto dell’autrice riprodotta in copertina fosse tanto attraente da spingere qualcuno a rompere la vetrina della libreria in cui il volume era esposto per impossessarsene.
Dalla fine degli anni novanta, l’opera letteraria e giornalistica di Schwarzenbach è oggetto di traduzioni e riedizioni e alla sua figura vengono consacrate biografie documentarie o romanzate anche in Italia. Per comprendere le ragioni di questo carsico ma tenace interesse per un’autrice che, come osserva Melania Mazzucco in Lei così amata (Rizzoli, 2000), sembra nonostante tutto destinata a rimanere in quella genealogia di scrittori minori che non dà diritto a una voce nelle enciclopedie della letteratura, è bene ripartire da quella vetrina in frantumi e valicare quindi i confini della produzione scritta di Schwarzenbach per osservarla in quanto icona. Molta della materia di cui è fatto il fascino di questa suisse rebelle si trova proprio negli scatti fotografici che la ritraggono, in particolare quelli di Marianne Breslauer e di Ella Maillart, che ne magnificarono la malinconica bellezza androgina.
La fotografia è in gran parte l’artefice del mito di questa amazzone a cavallo tra diverse frontiere: sociali, geografiche e di genere. Aristocratica in conflitto con il suo milieu, viaggiatrice pionieristica tra oriente e occidente sul finire degli anni trenta, eterea presenza in bilico tra maschile e femminile, tra lucidità e follia, tra vita e morte. Capello corto, occhio chiaro perduto in paradisi di morfina, personale elegante, abiti di buon taglio di foggia maschile per circolare indisturbata sul limitare del deserto: Annemarie Schwarzenbach è un’icona di stile che reinterpreta in chiave decadente l’ideale estetizzante della vita come forma d’arte in cui si coniugano sublime e corruttela. Schwarzenbach rinverdisce così il mito del dandy à la Baudelaire che contempla il mondo da lontano e che da esso si lascia contemplare come se vivesse continuamente di fronte a uno specchio.
Ed effettivamente, come in un gioco di specchi, la sua immagine è stata produttrice a sua volta di immagini, per esempio cinematografiche. Nel documentario Annemarie Schwarzenbach. Une Suisse rebelle (2000), Carole Bonstein ne ha raccontato la breve esistenza servendosi, tra l’altro, di alcuni frammenti di video della famiglia Schwarzenbach-Wille.
Nel 2001, gli svizzeri Donatello e Fosco Dubini hanno firmato quello che ad oggi è l’unico film di impostazione narrativa classica dedicato alla scrittrice, ovvero Die Reise nach Kafiristan (Viaggio in Kafiristan). Il lungometraggio ripercorre le tappe del viaggio verso l’India, compiuto nel 1939 da Schwarzenbach con l’etnologa e fotografa Ella Maillart, che dovette concludersi anzitempo a Kabul per lo scoppio della seconda guerra mondiale e che è oggetto del volume da poco pubblicato Tutte le strade sono aperte. Viaggio in Afghanistan, 1939-1940 (Il Saggiatore, 2015). Con un linguaggio visivo in cui predomina la figura umana ripresa in ieratici campi lunghi, i Dubini mettono in scena Schwarzenbach nelle vesti di esploratrice sul modello di Isabelle Eberhardt o di quella Gertrude Bell a cui Werner Herzog quest’anno ha dedicato il suo non certo indimenticabile Queen of the desert.
Nel 2012 la film-maker sperimentale polacca Malga Kubiak ha invece realizzato Annemarie Schwarzenbach Duende, sorta di viaggio tossico e allucinato attraverso gli anni che vanno dall’ascesa al potere di Hitler fino alla morte della scrittrice nel 1942 per una caduta dalla bicicletta. Il film di Kubiak alterna immagini di repertorio della Germania nazista a messe in scena teatrali di episodi della biografia di Schwarzenbach raffigurando l’autrice di Morte in Persia quasi fosse un’icona del rock’n roll, come dimostra la sequenza dell’internamento in ospedale psichiatrico sulle note distorte di Back to black di Amy Winehouse, altra figura di artista maledetta morta prematuramente.
A questi titoli, nel 2015 si è aggiunto Je suis Annemarie Schwarzenbach di Véronique Aubouy, presentato in anteprima al sessantacinquesimo festival di Berlino nella sezione Panorama e recentemente visto in Italia al Sicilia Queer Festival. In questo strano oggetto filmico, la regista ci mostra il processo di selezione dell’interprete che dovrà incarnare Annemarie Schwarzenbach in quella che ad oggi è ancora un’ipotesi di film biografico e che dovrebbe intitolarsi Inconsolable. Mettendo in scena il processo di preparazione di un biopic, Aubouy finisce per interrogare le forme stesse di questo genere di rappresentazione a partire dal rapporto tra creazione e mimesi, una mimesi intesa non solo come mera imitazione ma come vero e proprio atto di raffigurazione. Il dispositivo registico elaborato da Aubouy ci spinge infatti a riflettere su che cosa esattamente debba o possa raffigurare un film su Annemarie Schwarzenbach: un’icona fotografica? Un mito stilizzato su alcuni dati biografici salienti?
Inizialmente, le candidate sono convocate per un provino in un appartamento di Parigi dove l’assistente alla regia sottopone loro i ritratti più famosi della scrittrice perché riproducano quelle pose: in tali scene prevale l’effetto imitativo di un’immagine già fissata nella sua stereotipia fotografica e il risultato è grottesco, come di brutta copia. In altri momenti, invece, la voce fuoricampo della regista sollecita le giovani a raccontarsi prendendo ispirazione da aspetti della vita e della personalità di Schwarzenbach; in questo caso, ciò che emerge è tanto più interessante quanto più ampio è lo spazio di scarto tra le (auto)rappresentazioni e un modello progressivamente sempre più indisponibile. Come nella teoria della performatività di Judith Butler secondo cui il genere non è altro che la copia di un originale che non esiste, anche qui ci rendiamo conto che il modello non è altro che il prodotto della sua stessa messa in scena.
In questa chiave decostruttiva, l’androgina scrittrice diventa l’archetipo di una soggettività dislocata che si produce sempre nell’alterità. “È come se gli altri fossero la realtà e ‘io’ fosse una finzione”, dice a un certo punto l’attrice italo-svizzera Julia Perazzini che non sa bene come dire il proprio nome perché i genitori lo pronunciano alla francese, gli amici all’italiana e la nonna alla tedesca. In questo senso il titolo del film, Je suis Annemarie Schwarzenbach, ci appare non come una dichiarazione di identità bensì come un atto di identificazione con l’altro, forse anche sulla scia più o meno ironica di quel je suis che dopo l’attentato del gennaio 2015 a Charlie Hebdo si è prestato a una teoria infinita di riadattamenti contingenti talvolta fantasiosi (je suis taxi legale…).
L’attualità di Schwarzenbach sta quindi anche in questa capacità che la sua figura ha di funzionare come epitome di una fluidità identitaria avulsa dai rigidi schemi binari dell’identità (io/altro) o delle norme di genere (maschile/femminile) e della sessualità eteronormata (omo/etero). Non a caso, una delle Annemarie del film è interpretata da un ragazzo efebico e a spiccare per talento ed efficacia tra tutte le aspiranti attrici è una ragazzona che, proprio perché poco somigliante fisicamente alla scrittrice, si dimostra capace di arricchire il suo gioco recitativo incarnando anche l’altro di Schwarzenbach, vale a dire la giunonica e militaresca madre Renée Wille, parente del generale Bismarck.
Data però la fattura particolarmente estetizzante di quest’ultimo film, in cui il casting si trasforma spesso in una snervante gara tra chi è più cool, non si può trascurare quanto la sovversione delle norme sessuali e di genere sia oggi facilmente captabile da strategie di capitalizzazione della trasgressione che annichiliscono il significato politico dei processi di liberazione di donne e soggetti Glbt lasciando il passo a una delle tante forme di spettacolarizzazione della personalità individuale. Judith Halberstam osserva infatti in uno dei saggi raccolti in Maschilità senza uomini (Ets, 2010) che la trasgressione di genere: “con le sue promesse di liberazione (…) e la sua patina di trasgressività, col suo desiderio di fluidità e la sua rigidità reale, potrebbe essere l’esito felice di anni di attivismo (…); oppure, con la stessa facilità, potrebbe divenire il segno del riassorbimento di una cultura radicale nel contesto dell’economia flessibile della cultura post-moderna”. Il caso Schwarzenbach può quindi invitarci a riflettere sulle forme e le funzioni sempre più ambigue e sofisticate con cui circolano nel discorso pubblico le figure di una liberazione che rischia di essere minata dagli stessi dispositivi che sembrano promuoverla.
silvia.nugara@unito.it
S Nugara è dottore di ricerca in scienze del linguaggio e specialista in studi di genere
LIBRI E FILM
Annemarie Schwarzenbach, Tutte le strade sono aperte. Viaggio in Afghanistan, 1939-1940, ed. orig. 2000, trad. dal tedesco di Tina D’Agostini, pp. 168, € 15, Il Saggiatore, Milano 2015
Je suis Annemarie Schwarzenbach, film di Véronique Aubouy, 2015
Annemarie Schwarzenbach, Gli amici di Bernhard, ed. orig. 1931, trad. dal tedesco di Vittoria Schweizer, pp. 1992, € 13, L’Orma, Roma 2014
Melania Mazzucco, Lei così amata (prima ed. Rizzoli, Milano 2000), pp. 501, € 14, Einaudi, Torino 2012
Annemarie Schwarzenbach Duende, film di Malga Kubiak, 2002
Die Reise nach Kafiristan, film di Donatello e Fosco Dubini, 2001
Annemarie Schwarzenbach. Une Suisse rebelle, film di Carole Bonstein, 2000