Illusione di trasparenza
di Martino Gozzi
dal numero di novembre 2014
In Quell’anno a scuola, il romanzo di formazione pubblicato da Tobias Wolff nel 2005, il protagonista è un giovane studente che all’inizio degli anni sessanta sogna di diventare uno scrittore. La boarding school che frequenta nel New England incoraggia gli allievi a cimentarsi nella scrittura, e premia i migliori concedendo loro il privilegio di passare un pomeriggio in compagnia dei loro idoli letterari, ospiti della scuola. Dopo aver partecipato senza successo ai primi concorsi dell’anno (e avendo quindi perso, oltre che la fiducia in se stesso, la possibilità di scambiare due parole a tu per tu con il leggendario Robert Frost o con la perfida Ayn Rand), il protagonista di Wolff intuisce di dover cambiare strategia. In vista dell’arrivo annunciato di Ernest Hemingway, si mette a ricopiare, battendole a macchina, le celebri short stories del maestro di Oak Park. Perché? Per capire cosa si prova a scrivere qualcosa di veramente grande. Dopo averci preso gusto, il protagonista (il cui nome Wolff è attento a non citare mai) s’imbatte casualmente nel racconto di un’allieva poco più grande di lui, iscritta fino a qualche anno prima a un collegio femminile a pochi chilometri di distanza. Il racconto della ragazza è folgorante, bellissimo. Non solo perché ripercorre con sincerità, se non addirittura con sfrontatezza, le circostanze di un fatto increscioso, meschino, desolatamente quotidiano. Ma anche perché è animato da una voce, una voce credibile, autentica, che non cerca di fare il verso ai romanzieri del momento ma bada all’essenziale, dice le cose come stanno. Naturalmente, il protagonista ricopia anche questo racconto, e con questo racconto non suo si aggiudica il premio più ambito, l’udienza con l’autore di Addio alle armi. Poi, tutto va a rotoli: Hemingway si suicida prima di visitare il campus, e il protagonista paga a caro prezzo il suo plagio. Una volta smascherato, viene espulso dalla scuola.
Dieci anni dopo la pubblicazione di Quell’anno a scuola, arriva in libreria La nostra storia comincia (trad. dall’inglese di Grazia Giua, pp. 546, € 21, Einaudi, Torino 2014), una maestosa antologia di racconti che raccoglie il meglio della produzione di Wolff, sancendone definitivamente l’importanza. I racconti di La nostra storia comincia appartengono a tre momenti diversi. Come viene chiarito in una nota dell’editore, i primi quattro, del tutto inediti in Italia, sono apparsi per la prima volta negli Stati Uniti nel 1981. I cinque successivi, inediti come i precedenti, risalgono al 1985. Gli ultimi dieci, più brevi, sono invece frutto del lavoro dell’ultimo decennio. Purtroppo il curatore del volume ha pensato di omettere gli altri racconti contenuti nell’edizione originale, in quanto già confluiti nello straordinario Proprio quella notte (2001). È un peccato, perché sarebbe stato ancora più gratificante tenere tra le mani, in un unico tomo definitivo, tutti, ma proprio tutti, i racconti memorabili di questo maestro. Ci toccherà aspettare. Per l’edizione italiana Einaudi ha scelto di dedicare la copertina a un ritratto dell’autore, colto di profilo con i suoi magnifici baffi bianchi in bella mostra. Se esiste oggi, nell’editoria nostrana, qualcosa di paragonabile a un premio alla carriera, si tratta proprio di questo. Wolff è nato nel 1945 in Alabama. Dopo aver prestato servizio in Vietnam, ha insegnato all’università per quasi tutta la vita. Prima a Syracuse, poi a Stanford, dove lui stesso ha studiato e dove, nel 1975, ha vinto la prestigiosa Wallace Stegner Fellowship. Nel corso degli anni, per i suoi racconti e memoirs, ha ottenuto il Pen/Malamud Award, il Rea Award e il Pen/Faulkner Award. Basta sfogliare le pagine di questa raccolta per capirne il motivo.
Nel frattempo, consiglio a tutti coloro che sognano di diventare scrittori di prendere esempio dal giovane protagonista di Quell’anno a scuola: scegliete uno di questi racconti e ricopiatelo, parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo. Gustatevi gli aggettivi. Interiorizzate il ritmo dei dialoghi. Studiate l’economia delle descrizioni. Forse non proverete alcun brivido (dopotutto sapete bene che non è farina del vostro sacco!), ma di certo riuscirete a mettere a fuoco la ricca trama di mosse che, come in una magistrale partita a scacchi, porta l’autore a disarmarvi.
In una recensione apparsa sulla “London Review of Books”, Wyatt Mason ha scritto di Wolff: “Tipicamente, i suoi protagonisti si trovano ad affrontare un profondo dilemma morale e non riescono a conciliare ciò che sanno essere vero con ciò che sentono essere vero. Il loro grande difetto è la doppiezza, che poi è il tema principale di Wolff”. Tutti i personaggi che appaiono in La nostra storia comincia si trovano, spesso loro malgrado, ad attraversare ignari quella zona grigia dei comportamenti umani che è appunto la doppiezza, la menzogna, la falsità, l’impostura, “inganno e autoinganno”, come si legge nel risvolto di copertina. Alle volte pagano le conseguenze di questi sbandamenti, come accade al protagonista di Quell’anno a scuola. Altre volte la fanno franca, e perdono un’occasione preziosa per capire qualcosa di se stessi.Nel frattempo, consiglio a tutti coloro che sognano di diventare scrittori di prendere esempio dal giovane protagonista di Quell’anno a scuola: scegliete uno di questi racconti e ricopiatelo, parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo. Gustatevi gli aggettivi. Interiorizzate il ritmo dei dialoghi. Studiate l’economia delle descrizioni. Forse non proverete alcun brivido (dopotutto sapete bene che non è farina del vostro sacco!), ma di certo riuscirete a mettere a fuoco la ricca trama di mosse che, come in una magistrale partita a scacchi, porta l’autore a disarmarvi.
Prendete Mary, la protagonista del primo racconto dell’antologia, Nel giardino dei martiri nordamericani. Dopo anni di insegnamento trascorsi in Oregon, senza un compagno e senza soddisfazioni professionali, Mary accetta l’invito di un’ex collega a sostenere un colloquio per entrare nel corpo docente di un college vicino a New York. Prende un aereo e raggiunge l’amica sulla East Coast, convinta di avere buone probabilità di ottenere l’incarico, salvo poi rendersi conto, al momento del colloquio, di essersi illusa: il posto è già stato promesso a un altro; la commissione doveva solo rispettare formalmente le quote rosa nelle selezioni. Oppure prendete i tre protagonisti di Cacciatori nella neve, uno dei racconti migliori della raccolta. Ognuno di loro vorrebbe nascondere qualcosa ai compagni, e in questo sforzo patetico si avvicina, inconsapevole, a una tragedia. Tub è goffo e insicuro, un grande obeso che non riesce a controllarsi a tavola ma dice di avere problemi di ghiandole. Frank si atteggia a uomo saggio, eppure vive con imbarazzo la relazione con una babysitter di sedici anni. Kenny è convinto di essere il più furbo della combriccola, pur non essendo altro che una testa calda, tanto irascibile quanto incauto. Sullo sfondo, lo stato di Washington d’inverno: i boschi del grande Nord-Ovest ammantati di neve, e decine di chilometri tra una tavola calda e l’altra.
Oppure prendete Mark, figura centrale dell’ennesimo racconto ad ampio respiro, sapientemente costruito e infuso, al tempo stesso, di vero calore umano: In panne nel deserto, 1968. Sfinito da un viaggio in auto con la moglie Krystal, conosciuta in Germania quando era soldato, e il figlioletto Hans, Mark è costretto a fermarsi a una pompa di benzina per un guasto al motore. Pur di proseguire verso la California, dove sogna di sfondare come attore nell’industria del cinema, Mark decide di fare l’autostop fino alla cittadina vicina, per procurarsi l’alternatore di cui ha bisogno, lasciando temporaneamente la famiglia alla stazione di servizio, in compagnia di una donna dai modi bruschi e di un gruppetto di vecchi bifolchi. Peccato che Mark non abbia ancora scoperto di quale pasta sia fatto: quanto velleitari siano i suoi sogni, quanto molle la sua determinazione, e quanto incostante l’amore che prova per la moglie. O prendete ancora Joe Reed, il protagonista dell’ultimo racconto, Bacio vero. Nel suo caso, la doppiezza (o la menzogna, o l’impostura, o l’inganno) si dilata fino a comprenderne l’intera esistenza. “Joe aveva vissuto un’altra vita segreta, parallela a quella nota a chi gli stava intorno. In quest’altra vita non era mai partito per la California ma era rimasto a Dunston con Mary Claude. Aveva cominciato a perdersi in quella fantasticheria pochi mesi dopo il trasloco, nell’immensità estiva di una strada assolata su cui i vecchi si affacciavano sbirciando ansiosi da dietro le tendine scostate, e di notte gli spruzzatori innaffiavano prati calpestati unicamente dai messicani che li tosavano. Quando sua madre si decideva a lasciare la camera da letto buia per mandarlo fuori a forza, Joe si portava il ‘Saturday Evening Post’ a bordo piscina in un parco poco distante e guardava le ragazze spalmarsi reciprocamente di olio solare e lanciare gridolini quando i bellimbusti nei paraggi le schizzavano. Lui si stendeva a pancia in giù con lo sguardo fisso sul ‘Post’ e viveva la sua vita fantasma con Mary Claude”.
Come si capisce da questo brano, la prosa di Wolff ha tutte le virtù della scrittura schietta e disadorna che il protagonista di Quell’anno a scuola finiva per copiare dalla ragazza più talentuosa di lui. In questi racconti non si inciampa mai su una parola di troppo, e ogni frase è calibrata con precisione, ma la scrittura di Wolff non dà mai mostra di sé. Anzi, genera quell’illusione di trasparenza, di spontaneità, che è tipica dei grandi narratori. Questa sua voce, impastata ai fatti di vita quotidiana cui Wolff ha sempre rivolto la propria attenzione, lo colloca in buona compagnia nell’albero genealogico della narrativa americana contemporanea, accanto ad altri grandi interpreti della short story, quasi tutti suoi coetanei, amici o colleghi a Syracuse: Raymond Carver, Richard Ford e Andre Dubus. Ecco, una volta letto, La nostra storia comincia va riposto sullo scaffale che ospita Cattedrale, Rock Springs e Il padre d’inverno. Insieme, queste quattro raccolte di racconti descrivono non solo la geografia di un paese sterminato, ma anche la finitezza e l’imperfezione e l’irreparabilità della vita dei suoi abitanti.
All’inizio degli anni ottanta, riferendosi a questi autori, Bill Buford parlava su “Granta” di “realismo sporco”. Da allora sono passati più di trent’anni, eppure, anche nell’era del realismo isterico, la voce sicura, calda e pacata di Wolff merita di essere ascoltata.
martinogozzi@hotmail.com
M Gozzi è scrittore