La regina rossa dei Sunnyside Gardens
recensione di Francesco Guglieri
dal numero di giugno 2014
Jonathan Lethem
I GIARDINI DEI DISSIDENTI
ed. orig. 2013, trad. dall’inglese di Andrea Silvestri
pp. 539, € 19.50
Bompiani, Milano 2014
Ci sono scrittori che usano il mondo come se fosse il loro quartiere. Sono quelli che scrivono romanzi monstre, ibridi narrativi pieni di paesi stranieri e personaggi dalle lingue sconosciute: alcuni (penso, ad esempio, a scrittori come Teju Cole, Taiye Selasi, Helen Oyeyemi o Zadie Smith: autori di cui è addirittura difficile ricordare la nazionalità in prima battuta) riescono a evitare l’indigesto pappone fusion, altri no. Poi ci sono gli scrittori che usano il loro quartiere come se fosse il mondo. Jonathan Lethem appartiene a questa seconda categoria. Non è un giudizio di valore, o un’accusa di provincialismo: è esattamente il contrario. Nei loro libri, all’“orizzontalità” geografica dei romanzi globali, contrappongono la verticalità, anche temporale, di uno sguardo sempre posizionato, l’irriducibilità di un corpo interrogante e inquieto. È quello che fa Lethem in questo I giardini dei dissidenti, pubblicato negli Stati Uniti nel 2013, scrivendo un romanzo che è un carotaggio politico e sentimentale, intimo e collettivo, “personale e politico” come si diceva, di un intero mondo, grandiosa controstoria del secolo americano visto da un quartiere della grande mela.
Il romanzo inizia nel soggiorno di Rose Zimmer, la “regina rossa” dei Sunnyside Gardens, Queens, New York, militante comunista, ebrea, di mezza età, madre sola di Miriam, ma anche donna fortissima, innervata dall’acciaio della convinzione e della fedeltà all’utopia rivoluzionaria a cui ha dedicato la vita. Quel giorno del 1955 si è riunita in casa sua una commissione del partito per “la consuetudine comunista, il rito comunista: il processo in soggiorno, i rispettabili linciatori che approfittano della tua ospitalità mentre lanciano qualche granata della linea del partito sul tuo impegno, che sollevano un coltellino per spalmare il burro su un toast e lo usano en passant per tagliarti fuori da ciò a cui hai dedicato la vita”. L’accusa, quella con cui la espelleranno dal partito, è di aver avuto una relazione con Douglas Lookins, un poliziotto nero repubblicano: “negli anni trenta lei era stata quella che in seguito i persecutori dei Rossi avrebbero chiamato un’antifascista prematura. E adesso? Un’egualitaria troppo voluttuosa”. Dalla relazione nascerà Cicero, un altro dei personaggi principali del romanzo, e uno dei più belli e sofferenti: omosessuale, di colore, obeso, intellettuale inquieto. Come se non ci fosse una sua caratteristica che non fosse strabordante, impossibile da inquadrare. Poi il testimone passerà a Miriam, la figlia di Rose, nervosa, disordinata, destinata a perdersi nelle nebbie alcoliche e tossiche degli anni della contestazione hippie. Una versione meno arrabbiata di Merry, la figlia dello Svedese in Pastorale americana, che lascerà presto orfano l’ultimo testimone della famiglia, Sergius, a cui è affidato il compito di chiudere il romanzo, arrivati ormai al presente obamiano e alle proteste di Occupy Wall Street: un dissidente eterno definitivamente solo, “una cellula formata da un’unica persona, palpitante come un cuore”.
Con I giardini dei dissidenti, Lethem ha scritto senz’altro il suo romanzo più ambizioso e compiuto (anche se non il più bello), il suo romanzo più grande ma anche più “da grande”. Da scrittore adulto, da “scrittore serio” che (pur al costo di tradirsi un po’, dismettendo la sua vena fantastica, straripante, incontrollata, gioiosamente nerd) si confronta con la storia, quella con la esse maiuscola, nella sua variante più novecentesca: la rivoluzione. Ma anche con la storia letteraria, con la tradizione della literary fiction americana e lo fa con un romanzo che non può non ricordare Roth (quello di Pastorale americana o di Ho sposato una comunista), nello sguardo acuminato che rivolge al milieu ebraico newyorkese di sinistra, e che contiene echi di Mailer, Steinbeck, Dos Passos (e che dialoga con i contemporanei Adam Haslett di Union Atlantic o Rachel Kushner dei Lanciafiamme). Insomma, l’ambizione di Lethem è esplicita fin dalla scelta di far radicare la famiglia d’origine dei protagonisti a Lubecca: quello che vuole fare Lethem è scrivere i suoi Buddenbrook, la decadenza di una famiglia che riesca a raccontare la decadenza, o meglio le trasformazioni, di un paese. Oggi Rose vive in “un appartamento che non era tanto una casa, quanto un monumento a una vita abbandonata. Due finestre sul traffico della Broadway al posto di una magione situata abbastanza in alto nel quartiere elegante di Lubecca da offrire panorami sia del fiume che delle montagne, accanto alla casa di famiglia nientemeno che del rampollo della città, Thomas Mann”: ecco, i Giardini è attraversato da questa costante vena di nostalgia per un’origine perduta, fosse anche l’origine e la possibilità di scrivere un romanzo storico oggi.
Romanzo storico che ancora una volta sceglie di raccontare il particolare (una famiglia, un quartiere, una comunità specifica) per raccontare l’universale, anzi, per plasmare l’idea stessa di un universale che di certo non gli preesiste se non in qualche sciocco ideologismo. Per raccontare il conflitto della modernità, quello tra vincolo e libertà, tra storia e utopia. Tutti i personaggi dei Giardini vivono una qualche forma di conflitto tra identità per così dire imposte (razziale, sessuale) e quelle scelte liberamente. Questo conflitto in Lethem porta sistematicamente all’infelicità: è come se tutti i personaggi scontassero la loro fedeltà all’ideale con una radicale e irrimediabile solitudine, isolamento, e in definitiva infelicità.
I giardini dei dissidenti è composto da quattro sezioni, ciascuna formata da quattro capitoli, che a loro volta contengono più storie e tempi (a volte la stessa vicenda viene narrata da più punti di vista), un intreccio costruito con salti avanti e indietro nel tempo e in cui tutti i personaggi principali prima o poi prendono la parola, ognuno con la sua voce, in un argot (comprensibilmente difficile da rendere in traduzione) magnificamente orale e musicale. Lethem costruisce un romanzo tutto sommato privo di trama ma pieno di eventi, che procede per strappi e grandi affreschi che connettono le singole umanissime scene, in cui personaggi visti da vicino, senza ironia o distacco, inseguono i loro fantasmi. E lo fa puntellando la narrazione di altre narrazioni, altri romanzi certo, ma soprattutto frammenti di narrazioni pop: canzoni e cantanti folk, fumetti e videogiochi, programmi televisivi ne ibridano il linguaggio. Come se, dovendo raccontare il “diventare grandi in pubblico” non tanto del singolo (era questo il tema al centro dei suoi saggi letterari raccolti in L’estasi dell’influenza) ma di un’intera generazione, non potesse omettere il materiale con cui le generazioni si sono formate nel Novecento. Ma in questo si crea un’ulteriore spaccatura, in un certo senso il cuore paradossale e segreto del romanzo. Nel suo voler raccontare l’epopea del proletariato americano, non dà voce al proletariato, di certo non ne assume la voce, scegliendo (ma c’è scelta?) quella degli intellettuali: tutti i personaggi principali in fondo appartengono alle professioni creative o del pensiero.
Infine, ed è l’aspetto più tenero, quello che di più accompagna il lettore al termine della lettura, questo è un romanzo attraversato da una palpabile, struggente, nostalgia per la madre. Per la prima volta, Lethem scrive un romanzo pieno di donne, pieno di madri e mai concede qualcosa alla semplificazione o al sentimentalismo. E non è poco per l’autore di Brooklyn senza madre che in tutti i suoi libri ha sempre fatto i conti con l’assenza del genitore. Alla fine, sì, si diventa grandi.
francesco.guglieri@gmail.com
F Guglieri è critico letterario e redattore editoriale