Contesi tra artisti e antropologi
recensione di Ivan Bargna
dal numero di gennaio 2013
Ezio Bassani
ARTE AFRICANA
pp. 303, 262 ill. col. e b/n, € 55
Skira, Milano 2012
Quando si parla di arte africana si ha a che fare con oggetti contesi, con una lotta per il riconoscimento che si gioca in gran parte al di fuori dell’Africa. Non potrebbe essere altrimenti, visto che perlopiù gli oggetti di cui parliamo si trovano in Occidente, in musei pubblici o collezioni private. Si tratta di una vicenda che ha i suoi inizi tra fine XIX e inizio XX secolo, quando nasce l’antropologia culturale e si afferma il primitivismo modernista delle avanguardie artistiche. La divergenza non è fra denigratori e benefattori ma, sullo sfondo di un umanismo condiviso, sul modo più appropriato di intendere e presentare questi manufatti.
Gli antropologi li hanno spesso visti come forme della cultura materiale, come documenti, mentre artisti e critici d’arte ne hanno perlopiù valorizzato la dimensione estetica: oggetti etnografici da un lato, opere d’arte dall’altro.
Gli antropologi hanno rimproverato ai fautori di una lettura estetica il carattere etnocentrico dei loro giudizi di gusto e del loro stesso concetto di “arte”; mentre costoro hanno visto nell’approccio etnografico un localismo che impediva di cogliere il valore universale dell’arte africana.
Di questa contesa Ezio Bassani è stato un protagonista autorevole, che con grande coerenza si è dedicato per decenni, con mostre e pubblicazioni di rilevanza internazionale, alla selezione e presentazione dei capolavori dell’arte africana. E questo continua a fare anche in quest’ultima grande opera, con cui saluta quella che a suo avviso è l’odierna conversione dei musei etnografici tradizionali in musei d’arte, in cui “le opere riscattate dalla condizione di documento, sono promosse a testimonianza privilegiata della creatività umana”.
Bassani enuncia con molta chiarezza i presupposti da cui muove la sua ricerca: se “i criteri in base ai quali viene definita la valenza formale di un’opera variano secondo la cultura entro la quale vengono formulati (…) la perfezione formale (da non confondersi con la piacevolezza, che è una questione di gusto) [è] una qualità intrinseca di ogni opera d’arte (…) Perché forma e organizzazione della forma sono il linguaggio dell’arte figurativa di tutti i tempi”.
Il libro raccoglie una settantina di opere comprese fra il I millennio a.C. e il XVIII secolo, escludendo le opere del XIXXX secolo che costituiscono la grande maggioranza delle opere note; se questo fornisce quella profondità temporale senza cui una storia delle arti africane non è possibile, ha però come conseguenza l’espulsione della modernità e della storia coloniale dell’Africa. Anche se Bassani riconosce che la storia delle arti africane è attraversata da guerre, migrazioni, scambi, tutto ciò non ha effetti sulla sua impostazione, centrata sulla nozione astorica e aculturale di “capolavoro” (l’“intrinseca bellezza delle opere”): nella lettura di Bassani la storia sembra ridursi a datazione.
Dove l’approccio di Bassani appare più convincente è, lungo la linea che è stata di Frans Olbrechts e William Fagg, nell’analisi morfologica e stilistica che ha reso possibile l’attribuzione di certe opere a particolari atelier o scultori, cui si è dato spesso un nome convenzionale per l’impossibilità di risalire ad autori defunti in assenza di documenti scritti. Qui l’approccio dello storico dell’arte ha meritoriamente corretto l’antropologia, che in passato enfatizzava il predominio della dimensione collettiva su quella individuale, lasciando gli artisti nell’anonimato. Laddove invece l’analisi di Bassani suscita qualche perplessità, è quando fa di certi movimenti artistici occidentali (“realismo”, “cubismo”, “surrealismo”, “astrattismo”) delle categorie attraverso cui catalogare le opere africane.
È significativo che questa classificazione, che lo stesso Bassani ritiene un procedimento “improprio e inadeguato” per quanto utile, si chiuda con le “opere che non rispondono a categorie formali occidentali o le assommano”, nelle quali viene raccolto tutto ciò non è stato possibile accomodare nei termini precostituiti precedenti.
Forse oggi siamo però nelle condizioni di rivedere questo rapporto fra arte e antropologia, andando oltre il primitivismo modernista delle avanguardie e le tassonomie della vecchia museologia etnografica. L’antropologia (anche nel museo) mette in luce l’agentività delle persone, le storie di vita, il carattere connettivo, reticolare e aperto della cultura, l’importanza della dimensione estetica. Viceversa molti storici dell’arte guardano oggi all’antropologia per sottolineare la dimensione contestuale e culturale delle opere e per comprendere l’arte nell’epoca della globalizzazione; anche l’arte contemporanea può offrire nuove ipotesi interpretative: fatta di opere site specific, performance, azioni, costruzione critica di relazioni, spesso si rifà proprio alla pratica etnografica. Le opposizioni del passato sembrano lasciare il campo ad accresciute, apparenti convergenze che ci consentono di riavvicinarci alle arti africane con una diversa sensibilità.
ivan.bargna@unimib.it
I Bargna insegna antropologia estetica all’Università di Milano Bicocca