Talento di scrittura e grande coraggio
di Andrea Casalegno
dal numero di febbraio 2015
L’8 dicembre 1933 Patrick Leigh Fermor (1915-2011) s’imbarca a Londra per la costa olandese. Il suo progetto è ambizioso, tanto più ambizioso perché ha soltanto diciotto anni: arrivare a piedi a Costantinopoli. Vuol essere un pellegrino, un chierico vagante: dormire dove capita, negli ostelli, nelle stalle, nei fienili o meglio ancora, durante la buona stagione, all’aperto, e mantenersi con le poche sterline che riceverà, di tanto in tanto, a qualche fermo posta concordato. Fermor raggiungerà effettivamente Costantinopoli il 1° gennaio 1935: “Non sarei tornato fino al gennaio del 1937, nel bene e nel male del tutto cambiato dai miei viaggi”. Da allora passerà in viaggio, benché non più esclusivamente a piedi, gran parte della sua lunga vita; che, per la parte stanziale, si svolgerà soprattutto a Kardamili, nella penisola di Mani, irta di torri: il dito centrale delle tre dita meridionali del Peloponneso.
Fino alla partenza per Costantinopoli la vita di Patrick è stata piena di difficoltà. Appena partito si sente rinascere. Figlio di un geologo e funzionario del governo britannico in India e di una vivace madre dalle spiccate doti intellettuali, poco dopo la nascita viene affidato a un’altra famiglia, perché la madre raggiunge il marito in India con la figlia maggiore. Patrick non se la passa male, per quattro anni vive libero in campagna: “Passai quegli anni come se fossi il figlio di un contadino cresciuto allo stato brado”. Tuttavia il ricongiungimento con la madre e la sorella, “due bellissime sconosciute”, non dev’essere stato facile. Patrick rimane un ribelle, e come tale non ha fortuna presso le istituzioni scolastiche. Secondo le autorità dell’ultima frequentata è “una pericolosa mescolanza di sofisticatezza e improntitudine”.
Incerto fra la vocazione alla vita militare, che presumibilmente avrebbe dato sfogo alla sua esuberanza e al suo gusto per l’avventura, e una vocazione artistica da autodidatta che si rivelerà autentica, sceglie la fuga. Vuole attraversare a piedi la Mitteleuropa: “Una nuova vita! Libertà! Qualcosa di cui scrivere!”. La madre e il padre, che è sempre in India, anticonformisti quanto lui, non gli mettono i bastoni fra le ruote; anzi, sono persino disposti a parsimoniosamente contribuire.
Nasce così uno dei grandi viaggiatori del nostro tempo e uno scrittore sui generis di avventura. Le doti di Fermor sono l’audacia, l’illimitata curiosità intellettuale e soprattutto il talento per l’amicizia. Sta qui la sostanza dei suoi libri; la passione per la cultura, l’arte e la storia ne nutre le continue e dense divagazioni. Fermor non tradisce però neppure la seconda vocazione, quella militare. Il coraggio e il desiderio d’avventura, in cui rivivono al meglio lo sportivo e l’esploratore britannico di stampo ottocentesco, uniti alla perfetta conoscenza del greco moderno conquistata nei viaggi, gli valgono un incarico speciale. Paracadutato a Creta dietro le linee tedesche, vive per due anni sulle montagne con i partigiani greci e guida il commando che nel 1944 riuscirà a rapire il comandante tedesco dell’isola, il generale Kneipe; un nemico con il quale riuscirà a stabilire un contatto umano completando una sua citazione oraziana, evocata dai monti innevati di Creta: “Vides ut alta stet nive candidum Soractem”. Quell’avventura di guerra diventerà un film in cui Patrick è interpretato da Dirk Bogarde.
Un uomo e scrittore come Fermor non poteva non incantare la casa editrice Adelphi, che, dopo Mani. Viaggi nel Peloponneso (2006, tradotto da Franco Salvatorelli) e il libro che comincia la narrazione del grande viaggio del 1934, Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli: da Hoek van Holland al medio Danubio (2009, tradotto da Giovanni Luciani), ha ora pubblicato Fra i boschi e l’acqua (ed. orig. 1986, trad. dall’inglese da Adriana Bottini e Jacopo M. Colucci, pp. 290, € 19), che continua il viaggio lungo il Danubio dal ponte di Esztergom, al confine fra Slovacchia e Ungheria, sino alle Porte di Ferro. Neppure questo secondo volume arriva però a Costantinopoli; la conclusione del viaggio doveva essere affidata a un terzo libro, che Fermor non ha mai completato. Ciò che rende unico questo racconto di viaggio è la distanza tra i fatti, narrati come se avvenissero sotto i nostri occhi, e il tempo della scrittura. Il narratore li rievoca molti decenni dopo, utilizzando quando può i taccuini di allora (in parte conservati, in parte fortunosamente ritrovati, in parte perduti per sempre), ma anche tutte le esperienze e il bagaglio culturale accumulati nel frattempo.
Il viaggio era così ricco di vicende e di personaggi che non mancava la materia per un resoconto immediato. Sarebbe stata la via più facile per diventare scrittore; ma non è la via scelta da Fermor. Con una decisione che implica una coscienza da vero artista, egli decise di rielaborare quell’esperienza a posteriori, di raccontare la sua Mitteleuropa con il senno di poi, dall’alto di una visione umana e culturale più matura. Il primo libro infatti è datato 1977, quarantatré anni dopo il viaggio, il secondo addirittura 1986.
È una scelta felice, perché il risultato è in crescendo. Mani, del 1958, descrive un viaggio recente, a piedi e per mare, da Sparta a Ghition, lungo il versante occidentale e poi orientale della penisola più selvaggia del Peloponneso. Non è un viaggio solitario ma in coppia, compiuto con Joan, la compagna della sua vita. Protagonisti sono l’aspra natura della Grecia estiva, le grandiose memorie della mitologia classica e soprattutto “l’ospitalità verso gli stranieri” del popolo maniota. Dovunque arrivi la coppia, anche nel borgo più povero e sperduto, è pronta per loro una tavola, e il giaciglio per la notte. Giovani e vecchi li accolgono e li invitano a restare, e quasi sempre l’invito è accolto. “Lo straniero è sacro, come ai tempi dell’Odissea”, ma quel che più conta è “un vero e divorante interesse, il desiderio di stabilire col minimo indugio possibile un terreno comune tra esseri umani”. Nel Mani, terra primitiva e selvaggia, “l’indifferenza è considerata un segno di abbrutimento”.
Grande lezione di civiltà, che Fermor aveva già appresa, diciottenne, attraversando l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Slovacchia e l’Ungheria. I contatti fortuiti stabiliti dal viandante quando giunge, verso sera, spesso coperto di neve, a un borgo, un’osteria, una casa patrizia o un casolare si trasformano subito in scambio di parole, conoscenza, amicizia, ospitalità; e, da parte del ceto colto e possidente, in lettere di presentazione per amici di altri castelli e di altre ville.
È questo talento del diciottenne per l’amicizia a trasformare il suo cammino in un’esperienza che segnerà tutta la sua vita, a variare il percorso a piedi con lunghi tratti “regalati” a cavallo e in automobile, ad arricchire il paesaggio con i ritratti di persone ritrovate poi a distanza di anni, a introdurre fruttuose pause di giorni e anche di settimane in case ospitali mai più dimenticateE il resoconto di viaggio, arricchito dalle vicende dei decenni futuri, diventa la rievocazione nostalgica di un mondo perduto.
Questa nostalgia, l’intensità delle descrizioni paesistiche, la passione per le divagazioni storiche, l’illustrazione dei monumenti artistici relegano ai margini gli eventi contemporanei. Fermor li descrive con gli occhi di un diciottenne politicamente impreparato. Incontriamo raduni di SA, entriamo nella birreria di Hitler a Monaco, arriviamo a Vienna nel febbraio 1934, nel pieno degli scontri fra socialisti ed esercito, assistiamo alla sfilata vittoriosa di Dolfuss, e apprenderemo poi del suo assassinio, nonché della strage delle SA in Germania. Ma tutto questo non ci commuove, resta sullo sfondo. Ha assai più risalto, nel primo e nel secondo libro, la migrazione delle cicogne.
La politica è viva solo se entra nel quotidiano. Un giovane operaio di Monaco invita Patrick nella sua mansarda, gli mostra tutto fiero la sua divisa da SA e commenta: “Avresti dovuto vedere l’anno scorso! Allora erano tutte bandiere rosse, stelle, falci e martelli, immagini di Lenin e Stalin!”. E i vecchi amici? gli domanda Fermor. “Sono passati tutti dall’altra parte!”.
All’ampiezza delle rievocazioni storiche, inconcepibile da parte di un diciottenne che pure s’immergeva in tutte le biblioteche pubbliche e private incontrate lungo il cammino, per arricchire le proprie conoscenze geografiche, storiche e linguistiche, corrisponde una scrittura elaborata: una vera prosa d’arte, che raggiunge i vertici nelle descrizioni naturalistiche, architettoniche e pittoriche. Nella resa stilistica il progresso è evidente, dal 1958 al 1977 e al 1986, e i traduttori si dimostrano all’altezza per precisione e ricchezza di linguaggio.
Cresce anche, dal primo al terzo libro, l’intensità del tono elegiaco. Mani è la descrizione di un mondo arcaico tuttora vivo e presente, che anche il viaggiatore di oggi può almeno in parte ritrovare. Ma il viaggio del 1934 evoca un mondo cancellato dall’ultimo conflitto e dalle successive vicende dell’Europa orientale.
La Mitteleuropa è già stata travolta dalla Grande guerra quando la percorre il nostro viandante; tuttavia la società contadina, le tribù zingare, le famiglie patrizie incontrate lungo il cammino, soprattutto in Ungheria, hanno in parte preservato, nonostante l’impoverimento e le variazioni di frontiera, l’antica cultura radicata nel passato. Ma quando Fermor scrive quel mondo non esiste più. È il rimpianto per una perdita irreparabile a dare il tono alla narrazione: “Quasi tutti i miei amici erano stati trascinati nel conflitto contro i loro reali sentimenti, e tutti furono travolti dal cataclisma”.
In qualche caso però la crudeltà del destino supera la tragicità della storia. “Di quella casa ricordo ogni particolare. L’amicizia tra noi fu più profonda e molto più duratura di quanto il rapido scorrere di quelle settimane nelle terre di confine della Transilvania avrebbe giustificato. Nel caso di quella deliziosa e allegra famiglia la tragedia non ebbe niente a che vedere con il conflitto: una vampa improvvisa nella notte, e l’intera famiglia con la sua infiammabile dimora fu ridotta in cenere”.
È prevista l’uscita di un nuovo titolo di Fermor, La strada interrotta, da Adelphi.
casalegno.salvatorelli@gmail.com
A Casalegno è giornalista