Come svelare l’enigma della coscienza?
recensione di Mauro Maldonato
dal numero di febbraio 2015
Stanislas Dehaene
COSCIENZA E CERVELLO
Come i neuroni codificano il pensiero
Ed. orig. 2004, trad. dall’inglese di Pier Luigi Gaspa, pp. 442, € 36
Cortina, Milano 2014
Un secolo fa la psicoanalisi muoveva alla neurologia e alla psichiatria dell’epoca una sfida senza precedenti: mostrare che l’influenza dell’inconscio sulla nostra vita è più potente della coscienza. Oggi, che la psicoanalisi è alle prese con il bilancio di un’idea geniale e ambigua, l’inconscio, che designa insieme il normale e il patologico (inconscia la nevrosi e inconscia l’origine dei sogni), a schema invertito, le neuroscienze sfidano la psicoanalisi con modelli sperimentali e clinici che stanno progressivamente chiarendo aspetti cruciali del cervello umano.
Doppiato il capo Horn del Novecento, le neuroscienze navigano a vele spiegate verso l’arcipelago inesplorato della coscienza. Eppure, fino a mezzo secolo fa non erano in molti a scommettere sulla possibilità di giungere in prossimità dei suoi arcana imperii. Una sfida impossibile, si diceva, roba da visionari, da cercatori di essenze. Ma, lontano dalle luci della ribalta, una storia potente e silenziosa, fatta di rigorose ricerche teoriche e sperimentali, procedeva parallela ai paradigmi dominanti (la psicoanalisi, il comportamentismo e più tardi il cognitivismo), tenendo testa al complotto intellettuale che l’aveva posta ai margini del dibattito culturale e accademico. Quella formidabile stagione che vide protagonisti personalità come Hughlings Jackson, William James, Charles Sherrington, Henry Ey, Wilder Penfield, Giuseppe Moruzzi, John Eccles e tanti altri, mostrò come la scienza proceda certo per passi piccoli e sicuri, ma soprattutto per grandi domande.
Quanta strada fatta da allora. La scoperta di nuovi metodi di indagine del cervello (neuroimaging funzionale) ha avuto un impatto, sulle neuroscienze, simile a quello che ebbe il telescopio di Galileo nel radere al suolo un millenario edificio di saperi e credenze. Oggi, la possibilità di svelare l’enigma della coscienza e di comprendere e curare molte malattie neurologiche e psichiatriche non è più solo una speranza. Ma qual è lo stato dell’arte? Domande, antiche e nuove, attendono risposta. Ad esempio, quale è il meccanismo che unisce un’entità fisica a un’altra immateriale come la soggettività di una persona? Come nasce la coscienza, e come si inserisce nell’ordine naturale delle cose? È di esclusivo dominio dell’uomo o anche di altre forme viventi? L’incontro tra la mente umana e computer di vertiginosa potenza ci consentirà di simularne le funzioni? Una domanda, però, è più urgente di tutte le altre, e ha a che fare con il futuro stesso della ricerca. Può un solo termine, la coscienza, appunto, descrivere fenomeni così diversi e distanti tra loro quali il coma o lo stato vegetativo di un paziente; la sensibilità ambientale (coscienza ecologica); aspetti morali, “la voce della coscienza” (coscienza morale); l’attività dell’io (coscienza narrativa) e così via? Non è forse compito fondamentale della scienza demarcare rigorosamente, innanzitutto sul piano linguistico e concettuale, il proprio oggetto di ricerca? Molte delle difficoltà che abbiamo davanti, la confusione concettuale, l’incerta formulazione dei problemi e dei programmi di ricerca, l’interpretazione dei fatti, derivano proprio da qui.
Ad alcune di queste domande prova a rispondere Stanislas Dehaene. L’autore chiarisce, preliminarmente, che i suoi argomenti sono tutti fondati su evidenze sperimentali. Le metodiche attuali, sostiene, ben più sottili dell’imaging cerebrale tradizionale, ci mettono in condizione non solo di distinguere attività fisiologiche aspecifiche e dal significato incerto (il flusso sanguigno e altre dinamiche metaboliche) da segnali che indicano sensazioni, percezioni, pensiero; ma anche di ricostruire precise configurazioni (in seguito alla sua esposizione a parole, immagini o suoni) dell’attività cerebrale. Queste “firme”, come egli le definisce, sarebbero i correlati biologici della consapevolezza.
Dehaene non si discosta dall’uso mainstream dei termini coscienza e consapevolezza. Utilizzandoli, però, quasi come sinonimi, insinua nel lettore, senza volerlo, un dubbio sul loro effettivo significato, mettendone a nudo il dramma concettuale sottostante e l’urgenza di un’innovazione linguistica. Di più: il suo auspicio per la nascita di una “scienza della consapevolezza” rende ancor più evidente l’insufficienza della rappresentazione dell’io consapevole come spettatore di un immaginifico teatro filosofico.
Ma che cos’è la consapevolezza? Per quel che ne sappiamo è l’espressione elevata di un complesso di distinti caratteri materiali e immateriali che, sin dalle prime fasi dello sviluppo, in un processo che va dal corpo al cervello e dal cervello a se stesso, preparano il terreno all’emergere del sé. Il suo ordinamento non è rigidamente gerarchico, ma sostenuto da molteplici livelli orizzontali, ognuno dei quali è in un continuum strutturale e funzionale con la nostra capacità autoriflessiva su norme e valori, azioni e decisioni, libertà e necessità.
Ora, se le cose stanno così, è sufficiente lo schema che sin qui ha opposto la consapevolezza all’inconsapevolezza, come il giorno alla notte? No. Non solo non si oppongono, ma sono in una relazione di co-implicazione profonda. Finanche di identificazione. Nel cuore della consapevolezza fluttuano ombre, rifrazioni fantastiche, repentine illuminazioni che ci restituiscono l’illusione che a decidere sia l’io, quando invece si tratta di movimenti elusivi, inaccessibili alla nostra luminosa razionalità.
Vi è molta consapevolezza nell’inconsapevolezza e viceversa. La consapevolezza è solo la punta di un iceberg di gigantesche proporzioni. Al di sotto della superficie una sovranità invisibile guida la nostra vita. Al pensiero inconsapevole collaborano regioni diverse del cervello. Il loro enorme lavoro di selezione e filtro di innumerevoli input sensoriali, interni ed esterni, permette solo a una piccolissima parte di loro di affiorare alla consapevolezza. Le prove? Ammettiamolo, non sono molte. Sappiamo, ad esempio, che ogni evento mentale, anche il più astratto, è correlato a eventi cerebrali (Dehaene dice: “Ogni stato della mente corrisponde a uno stato del cervello”); poi, che lesioni di singole aree cerebrali provocano la perdita (o il deficit) di alcune facoltà della mente a esse correlate; inoltre, che la consapevolezza ci ha messo in condizione di comprendere il nostro comportamento e di adeguarlo alle situazioni più diverse; infine, che essa ci mette in condizione di produrre ragionevolissime spiegazioni sulla base dell’esperienza, di distinguere cosa è consapevole da cosa non lo è.
Ma ecco, prepotenti, altre domande. Per quanto tempo nella nostra vita siamo davvero consapevoli delle nostre azioni? Gli psicologi della decisione dicono che la luce della consapevolezza illumina solo a tratti le nostre azioni e che, per gran parte della nostra vita diurna, siamo assenti a noi stessi: proprio nel senso del proverbio cinese: “Alla base del faro non c’è luce”.
Un esempio? Si pensi a quella “presente assenza”che ci ghermisce in alcuni lunghi viaggi in auto, quando ogni cosa scorre sotto i nostri occhi: paesaggi di ogni tipo, case, mezzi in direzione opposta, nuvole dalle forme bizzarre e così via. Guidiamo per chilometri, assorti nei nostri pensieri. Siamo puro, inconsapevole movimento. Solo più tardi, sorpresi, ci accorgiamo di aver fatto lunghi tratti di strada, senza essercene accorti. Proprio così. Senza essercene accorti, abbiamo affrontato tornanti difficili, evitato infrazioni, persino prevenuto incidenti. Eravamo consapevoli o inconsapevoli? Forse, consapevoli senza accorgercene? Ma cosa vuol dire poi “senza accorgercene”?
È chiaro che senza una memoria involontaria che imprima una direzione ai nostri automatismi tutto questo sarebbe impossibile. La nostra capacità di elaborare informazioni è molto limitata. Ma la registrazione, da sola, non basta. Come non basta tutta l’attenzione possibile per una piena consapevolezza delle cose e di noi stessi. Al massimo strapperemmo frammenti di consapevolezza al buio dell’inconsapevolezza. Forse diverremmo anche consapevoli di non essere consapevoli. Ma continueremmo a ignorare di essere in un punto cieco, in una zona inaccessibile al pensiero.
La consapevolezza non è un monolite. È fatta da molteplici livelli, da flussi e processi che ignorano i termini che usiamo per autodescriverci: io, sé, soggetto. In un singolare ordine spontaneo la tensione verso l’unità si alterna a un’altra verso la molteplicità, intervenendo nelle azioni in corso per facilitarne il successo; estraendo i dati salienti dalle informazioni disponibili per decisioni migliori; analizzando le variabili in gioco nella scelta; cercando soluzioni efficaci a certi problemi; elaborando giudizi diversi e nuovi, derivandone infine le conseguenze. È evidente che la fenomenologia di questa immane quantità di processi riapre la vexata quaestio dell’unità-molteplicità della consapevolezza e di come essa racchiuda l’insieme delle immagini e delle emozioni legate al corpo.
Come interpreteremo tutti i dati che abbiamo (e avremo) a disposizione? Con l’enorme messe delle evidenze empiriche prodotte ogni giorno è quasi impossibile prevedere dove saremo tra qualche decennio. Più facile immaginare come era l’universo prima del big bang. Certo, però, catalogare non vuol dire aver capito come e perché un sistema funziona. Ma questa è già un’altra storia. Tutta da scrivere.
m.maldonato@gmail.com
M Maldonato è psichiatra e insegna psicopatologia all’Università di Napoli