Magnete e assenza di volontà
recensione di Lorenzo Marchese
dal numero di dicembre 2014
Nicola Lagioia
LA FEROCIA
pp. 411, € 19.50
Einaudi, Torino 2014
Ci sono solo due cose davvero sbagliate nell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia. L’immagine di copertina di gusto retrò, con un’algida coppia in bianco e nero e abito da sera, non mostra legami con l’epopea fallimentare della famiglia barese Salvemini, che regge la sua fortuna sul vecchio padre Vittorio, palazzinaro di successo, e si disperde nella catastrofe della sua discendenza. Nemmeno il titolo, La ferocia, aiuta molto, nonostante l’evento che avvia la storia sia la morte violenta della primogenita Clara, sciupata dalla cocaina e dagli adulteri in serie.
Nei personaggi del romanzo di ferocia vera e propria se ne vede poca, e anche quella subita dalla vittima è differita fuori scena, frutto di un errore di calcolo di vecchi ricconi ubriachi. Prevalgono, dalla nascita dell’impero Salvemini alla sua attesa caduta, i risentimenti, le antipatie, i rancori non detti e i complessi filiali irrisolti, le perversioni o, al massimo, le ambizioni di vendetta quanto mai sballate e sfocate di quello che, dal secondo capitolo in poi, emerge quale protagonista del libro: Michele, il figlio bastardo dei Salvemini, stralunato ed escluso dai meccanismi di vita iperborghesi della sua famiglia (e che ovviamente, quindi, si occupa di letteratura a tempo perso). Se di ferocia si può parlare, essa è l’istinto meccanico e gioiosamente ferino che appartiene alle molte presenze animali del romanzo, percepite nella loro radicale alterità preumana, e non come la concatenazione disordinata di violenze, affetto e follie che permea il romanzo familiare dei Salvemini.
Gli attori di questo dramma non sono mossi da istinti atavici o da una violenza connaturata alla loro stirpe: invece, l’anomalia umana non può essere prevista confidando nelle norme della natura, ed è per questo che le diverse psicologie dei personaggi sono tratteggiate con una perizia imprevedibile, che è merce rara fra i narratori nostrani. A dire il vero, nel grande dominio dei mondi di finzione all’italiana, in cui i personaggi di carta sono di frequente burattini manovrati da un serioso spirito dei tempi, o da narratori-saggisti logorroici e invadenti, le creature di Lagioia brillano per tridimensionalità e precisione verosimile.
Scavalchiamo pure le prime settanta pagine del libro, immerse in un’atmosfera noir in cui Clara si aggira, nuda e massacrata, su una strada provinciale in veste di “magnete e assenza di volontà”, appesantita da una rete di metafore ardite e da similitudini epicizzanti che pure vorrebbero fare breccia nel senso comune del lettore, e che invece ricordano un po’ troppo Don DeLillo (e non è la prima volta). Quando Lagioia si addentra nella genesi dei disastrati Salvemini, il suo talento emerge più nitido. Lo spettro di una contemporaneità da decifrare è liquidato, la trappola dell’aggiornamento, che ha rovinato parecchi colleghi dell’autore, è aggirata con destrezza (fanno eccezione i lancinanti rimandi alla situazione disastrata di Taranto: una sciagura che nemmeno un romanzo può riscattare); sicché La ferocia appare piacevolmente anacronistico nella costruzione a forte chiaroscuro dei suoi personaggi: non è un caso che negli intenti dell’autore il titolo dovesse essere preso da un verso di Shakespeare.
Né si può evitare di pensare, fra i tanti modelli possibili, a Dostoevskij. Come nei Fratelli Karamazov, anche qui Michele è il figlio di un’unione sbagliata e quindi mira di un odio senza appello da parte della matrigna Annamaria (mentre, specularmente, si sviluppa un legame simbiotico e necroforo con Clara; per il suo ruolo, egli ricorda quasi uno Smerdjakov senza malvagità). La sua comparsa nel nucleo familiare, che allo stato nascente era pensato come un idillio, imprime l’accelerazione decisiva al naufragio dei vari membri del clan: nei genitori inizia la diffidenza per il non voluto Michele; Ruggero, fratello maggiore antagonista al padre, e da questi totalmente schiacciato, si chiude nella rabbiosa competizione della sua carriera di medico; Clara sviluppa un attaccamento anomalo al fratellastro, e ciò la predispone irreversibilmente alla discesa ad inferos.
Lagioia conduce parallelamente queste parabole impazzite senza pretendere di risolvere l’anima plurale del romanzo con una visione autoriale univoca, inscrivendosi così in un quanto mai dostoevskiano “dialogismo” (secondo la classica lettura di Bachtin). È il pregio migliore del libro, ma anche la spia di un sospetto. Lagioia ha sensibilità e sentimento dell’umano non comuni, che hanno contribuito a farne, insieme ai suoi interventi critici e al lavoro editoriale, uno dei migliori lettori d’Italia. Purtroppo, il suo atteggiamento nei confronti della letteratura sembra improntato a un amore carico di rispetto che lo frena, toglie originalità alla sua pagina: come quando, in Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (Minimum Fax, 2001), immaginava che il suo protagonista buttasse l’autore di Guerra e pace dal balcone, dopo contrastate discussioni. Rimane ancora la speranza che Lagioia impari a sbarazzarsi dei maestri, camminando solo sulle proprie gambe.
lorenzo.marchese@sns.it
L Marchese è critico letterario