Un’orgia di processioni per cementare le contrade
recensito da Jean Claude Maire Vigueur
dal numero di dicembre 2013
Chris Wickham
ROMA MEDIEVALE.
Crisi e stabilità di una città. 900-1150
trad. dall’inglese di Alessio Fiore e Luigi Provero, pp.576, 48€
Viella, Roma 2013
Fino a non molto tempo fa, parlare di Roma nel medioevo voleva dire in realtà parlare del papato e, nel migliore dei casi, dei suoi rapporti, non sempre facili, con i romani. Anche quando non erano cattolici, gli storici erano fin troppo abbagliati dal fascino del papato medievale per abbassare lo sguardo sugli abitanti di una città che non aveva conservato niente del suo antico splendore. D’altro canto, chi si interessava alla storia politica, sociale, economica e culturale delle città medievali preferiva occuparsi di Milano, Firenze, Venezia, Bologna oppure di una delle tante altre città italiane considerate molto più ricche, più dinamiche, più brillanti di Roma. Senza dirlo, e forse senza neppure esserne consapevoli, gli storici hanno a lungo avuto di Roma e dei suoi abitanti una visione non molto diversa da quella di tanti viaggiatori stranieri, a cominciare da Montaigne, per il quale non c’era a Roma differenza tra i giorni festivi e i giorni lavorativi per il semplice motivo che nessuno lavorava.
Non è più così oggi. Da un certo numero di anni Roma è diventata oggetto di ricerca da parte di numerosi studiosi che intendono studiarla come si è fatto con Firenze o Milano e quindi indagare sugli aspetti più variegati ma anche più banali, se vogliamo, della sua storia: quali sono state le principali attività economiche, come si presentavano le differenze di classe all’interno della popolazione, da chi era governata la città e secondo quali regole, quale conoscenza la gente poteva avere del proprio passato, se esisteva a Roma una cultura alta diversa da quella delle altre città e così via.
Su tutte queste questioni e su numerose altre la nostra conoscenza della Roma medievale ha fatto progressi enormi ma è vero che, complice l’abbondanza crescente delle fonti, la quasi totalità delle ricerche si era finora concentrata sugli ultimi secoli del medioevo, lasciando scoperto tutto il periodo anteriore alla metà del XII secolo, ossia quello precedente all’apparizione a Roma di un comune capace di esercitare il potere al posto del papato fino alla fine del medioevo o quasi. Non è quindi difficile capire l’impazienza con la quale, nella piccola koinè dei medievisti, si aspettava l’uscita del libro dedicato alla Roma dei secoli X-XII di uno dei maggiori medievisti in attività, l’inglese Chris Wickham, autore di importanti studi sull’Italia precomunale e di una monumentale summa sulle società occidentali nell’alto Medioevo (Le società dell’alto medioevo, pp. 992, € 63,75, Viella, Roma 2009). Roma medievale, pur senza raggiungere le dimensioni del precedente, non è esattamente un libro che si sfoglia la sera davanti al camino acceso gettando ogni tanto uno sguardo distratto alla TV. Non che sia di difficile lettura, tutt’altro! Wickham scrive in modo molto colloquiale e rifugge, come la peste, lo stile lambiccato e astruso caro a tanti professori. Solo che gli piace fare bella mostra della sua erudizione: ha letto ciascuno dei 1300 documenti d’archivio che si sono conservati per la Roma di questa epoca e intende farlo vedere, il che lo porta a moltiplicare le esemplificazioni ma anche a disquisire di sfumature o minuzie delle quali si poteva benissimo fare a meno, a mio parere.
Ciò detto, il libro di Wickham è evidentemente un grande libro di storia e non solo perché colma un’enorme lacuna della storiografia italiana. Su molte questioni Wickham ha un modo del tutto personale di ragionare e di interrogare le fonti, un modo che all’inizio può stupire e spiazzare il lettore ma che alla fine lo porta a rimettere in causa anche le acquisizioni più consolidate e a considerare sotto nuova luce realtà o fenomeni sui quali sembrava che tutto fosse stato detto. Inoltre, famoso per la sua sterminata conoscenza della bibliografia non solo storica ma anche archeologica e antropologica, Wickham non manca mai di confrontare la situazione di Roma con quelle di altre città, anche lontane dall’Italia, quando l’operazione gli può fornire utili elementi di interpretazione ed è particolarmente abile a sfruttare tutti i suggerimenti provenienti dalle due discipline cugine. Diciamolo senza mezzi termini: si potrà sempre trovare qualcosa da ridire alle innumerevoli ipotesi e alle più azzardate interpretazioni di Wickham ma almeno con lui non ci si annoia mai, l’avventura è sempre dietro l’angolo del prossimo capitolo, del prossimo paragrafo, talvolta della prossima pagina. Dato lo spazio a mia disposizione, mi limito a due esempi.
Secondo Wickham, Roma sarebbe stata fino al 1100 la città di gran lunga più vasta, più popolata, più ricca di tutto l’Occidente. È vero che da una certa data gli storici, ma soprattutto gli archeologi, sulla base di scavi condotti con la dovuta attenzione alle tracce di occupazione posteriore all’antichità, hanno molto rivalutato la vitalità dell’artigianato di lusso nella Roma dei secoli V-VIII, a tal punto che si è potuto allestire un museo esclusivamente dedicato a quel periodo ricco di numerosi e preziosi reperti (si tratta del poco conosciuto ma affascinante museo di Roma altomedievale allestito sul sito della Crypta Balbi, con entrata da via delle Botteghe Oscure). Wickham non esita ad attribuire la stessa prosperità alla Roma del periodo successivo e lo fa sulla base di una serie di osservazioni di natura molto diversa ma nelle quali hanno un ruolo di primissimo piano i dati ricavati dall’esame della diffusione, in Italia e fuori Italia, di un certo tipo di ceramica di lusso, fabbricato a Roma e solo a Roma. Forse è un po’ azzardato estendere, come fa Wickham, il dinamismo dei fabbricanti di ceramica ad altri settori dell’artigianato quali la lavorazione dei metalli, dei pellami, dei tessuti, ma sono totalmente d’accordo con lui nel dire che, quando si mettono insieme tutti i dati relativi alla produzione artigianale, alla distribuzione della proprietà fondiaria e alla densità della popolazione all’interno delle mura aureliane, allora sì, diventa difficile non riconoscere l’assoluto primato di Roma sulle altre città dell’Occidente.
L’altro esempio riguarda lo spazio occupato, nel libro, dalle processioni pontificie. La mia prima reazione, quando ho visto, leggendo l’indice, che Wickham dedicava non meno di trenta pagine all’analisi dei rituali processionali, è stata quella di pensare che il vecchio (come si dice parlando di un amico, a prescindere dall’età) e incallito Wickham aveva deciso di adeguarsi alla moda: visto che il pubblico va ghiotto per i rituali, allora anch’io gliene servo un bel piatto. Ma sbagliavo io e aveva ragione lui. Prima di tutto perché il papa doveva allora partecipare ad un numero incredibilmente alto di processioni che duravano un’intera giornata e potevano anche includere veglie notturne. Come dice Wickham nello stile che lo caratterizza, si trattava per il papa “di un mucchio di lavoro”. Poi perché ognuna di queste processioni aveva un proprio itinerario che univa due punti molto distanti della città, obbligando ogni volta il papa, e il folto corteo dei suoi accompagnatori, a percorrere intere porzioni dello spazio urbano.
Ora bisogna considerare che i venti o trenta mila abitanti della Roma dell’epoca, lungi dal formare un blocco compatto in una determinata area dello spazio intra muros, come succederà in epoca comunale, erano al contrario disseminati in un gran numero di piccoli nuclei separati gli uni dagli altri da orti e vigne. Ci voleva quindi un cemento molto forte per garantire la coesione di una popolazione divisa tra tante “contrade” (è il termine usato dalle fonti), ognuna delle quali possedeva una sua precisa fisionomia. E la fonte di tale cemento, secondo Wickham, è da cercare proprio in quell’orgia di processioni che, non meno di trenta volte all’anno, solcavano lo spazio urbano in tutti i sensi e durante le quali il papa, circondato da una folla di chierici e di laici, distribuiva ingenti quantità di denaro ai romani accorsi da tutte le parti della città. Il “sistema Roma” funzionerà su questa base almeno fino alla fine del XI secolo. Dopodiché il popolo romano troverà un’altra forma di coesione, quella politica del comune che nascerà – ma questo sono io a dirlo – dalla progressiva coagulazione di tutte le contrade, secondo un processo analogo a quello che, nella Grecia arcaica, aveva fatto nascere la polis.
jeanclaude.mairevigueur@uniroma3.it
J C Maire Vigueur insegna storia medievale all’Università di Roma Tre