Michael Haneke – Amour

A porte chiuse

recensione di Francesco Pettinari

dal numero di dicembre 2012

Michael Haneke
AMOUR
con Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva
Francia / Austria / Germania 2012

Michael Haneke - Amour - LocandinaIl trionfatore di Cannes 2012, accolto con larghi consensi, è stato Amour di Michael Haneke. A consegnare la Palma d’oro al regista austriaco Nanni Moretti, presidente di giuria, a proposito del quale si dice che anni fa avesse detestato quello che è il film-manifesto della poetica di Haneke: Funny Games. Il cinema di Haneke si è imposto in un crescendo continuo all’attenzione della critica e ha raccolto numerosi riconoscimenti importanti: questa è la sua seconda Palma d’oro, la prima l’aveva avuta con il precedente lavoro, Il nastro bianco, film che racconta come, all’origine del nazismo, ci sia stato un sistema educativo rigido e repressivo; tra i suoi film da ricordare: Niente da nascondere, La pianista, Benny’s Video, Il settimo continente, e il già ricordato Funny Games, che il regista ha girato due volte, a distanza di dieci anni, in maniera ossessivamente uguale, cambiando solo il cast. Il cinema di Haneke è un cinema scomodo, intenzionalmente tale: o lo si ama o lo si rifiuta; il fattore principale che lo rende disturbante e inviso non solo al pubblico dei blockbuster ma anche a una certa critica è la rappresentazione della violenza, realizzata in maniera contraria a quella che è diventata canone: niente spettacolo, niente coreografie, niente intrattenimento, bensì una violenza che, usando abilmente i mezzi della sintassi cinematografica, si riversa sullo spettatore, portandolo a dover pensare a quello che vede, a doversi fare delle domande, a doversi dare risposte senza alcuna rassicurazione.

Morire non è uguale per tutti

Amour, seppure in maniera inaspettatamente nuova, è un film che si inscrive a pieno titolo nella continuità della filmografia di Haneke, e propone una sfida che è indicata già dal titolo: un film sulla morte che si chiama, giustappunto, Amour; a essere precisi, è un film che chiarisce il significato tra la morte e il morire: la prima è uguale per tutti, il secondo no: è un percorso individuale quello che conduce alla morte di ciascuno, e che si svolge entro limiti temporali variabili. Amour ha riportato al cinema due mostri sacri del cinema: Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, entrambi interpreti strepitosi.

Una scena di Amour - Haneke

Sono loro a conferire al film un esito che rompe gli argini del patto narrativo legato al cinema di finzione e lo fa approdare a qualcosa che sembra più vero del reale, quasi un documentario; entrambi ultraottantenni, come i personaggi del film, infondono alla loro interpretazione un contenuto di verità – verosimiglianza e credibilità sarebbero termini impropri – che va al di là di ogni bravura attoriale; e di Trintignant va ricordata la vicenda personale legata alla scomparsa della figlia, un dolore che l’ha portato a sfiorare il suicidio, e dal quale è poi uscito, tornando a recitare in questo film dopo molti anni. La regia di Haneke sembra assecondare la naturalezza della coppia, e si esprime con il suo segno caratteristico: macchina da presa fissa a inquadrare frontalmente, implacabilmente, le scene che racconta. L’amore del titolo è quello che lega i due protagonisti, Georges e Anne, ma è anche quello che deve confrontarsi con il momento più difficile, quello della separazione definitiva. Amour, pur raccontando una vicenda tanto specifica, sviluppa un’enorme potenza sociale, mettendo lo spettatore in una posizione scomoda, obbligandolo non solo ad assumere un atteggiamento verso il gesto finale del protagonista, portandolo altresì a confrontarsi con il tabù per eccellenza dei nostri tempi: la morte e il morire, tutto ciò che la società contemporanea esibisce come spettacolo nella finzione e anche nell’amplificazione mediatica dei casi reali: ma la morte, nella sua scandalosa verità umana, resta l’osceno nel senso latino dei nostri tempi, ciò che deve restare fuori dal visibile. Haneke ha realizzato un film che non parla di dolore, non consola, semplicemente lo mostra nella sua fenomenologia.

Per questo motivo non può esistere nessun tipo di lieto fine: il prologo fa entrare lo spettatore nel film come se fosse l’inizio di un noir: i vigili del fuoco irrompono in un appartamento e trovano due cadaveri: il racconto del morire non può che essere un flashback.
Oltre a Georges e Anne c’è un terzo grande protagonista del film: è il loro appartamento, lo spazio dove hanno vissuto la loro vita e dove si (ri)chiudono dopo l’attacco che segna il progressivo decadimento di Anne. A parte una sequenza iniziale dal sapore metacinematografico, il film è interamente ambientato all’interno del loro appartamento: è il caso di utilizzare l’espressione francese à huis clos, a porte chiuse, per definire quella che diventa una sede separata dal resto del mondo, un habitat chiuso dove solo la magia del cinema è potuta entrare. Proprio qui, la mattina successiva a un concerto tenuto da un ex allievo di Anne, la morte fa il suo ingresso in scena in una sequenza mirabile: loro due sono in cucina, fanno colazione, parlano di una riparazione di qualcosa inerente l’alloggio; a un certo punto, senza alcun preavviso, Anne si assenta, non risponde più, non è più presente, un breve segmento di tempo diventa l’anticipo di un’assenza definitiva: nessun ingresso trionfale: un mattino qualunque e tutto cambia. Anne viene operata alla carotide, metà del suo corpo resta paralizzato, torna a casa invalida, sulla sedia a rotelle.

La musique s’arrête

Da questo momento lo spazio dell’appartamento diventa funzionale all’handicap di Anne, e lo spettatore lo conosce a poco a poco, sempre secondo una strategia di disvelamento che si accompagna al progredire del racconto. Haneke seleziona in maniera geniale i momenti da mostrare, così come lo spazio dell’appartamento che sarebbe rimasto fuori in un altro racconto. Non solo l’ampio ingresso, il salone e la cucina, ma anche il bagno e, sempre di più, la camera da letto. Lo spazio di Anne e Georges è anche il racconto di chi sono loro: un ambiente borghese che definisce in pieno la loro estrazione sociale, il loro vissuto lavorativo, entrambi insegnanti di pianoforte; la musica si vede: il salone è pieno di dischi, di cd e di spartiti e, oltre all’impianto stereo, c’è l’immancabile pianoforte a coda lunga; la musica si ascolta: Schubert, Beethoven, Bach. Tutto inizia e tutto si interrompe, come un correlativo oggettivo della vita: per tre volte la musica comincia e si interrompe volontariamente, nemmeno l’arte riesce più a essere un proustiano ostaggio divino per ipotizzare l’immortalità dell’anima (Haneke ha dichiarato che in fase di lavorazione uno dei titoli possibili del film era La musique s’arrête). L’appartamento – che il regista ha ricostruito sul modello di quello viennese dei genitori dove è cresciuto – è arredato con molto garbo e molta sobrietà, le stesse qualità che possono attribuirsi a chi lo abita, a due persone che ancora si dicono grazie a ogni minimo gesto; per questo, con la loro scomparsa, scompare anche il loro mondo, un mondo dove la cultura e la misura sono la regola di un modus vivendi lontanissimo da quello dell’omologazione e della globalizzazione.

Una scena di Amour - Haneke

Il mondo esterno penetra assai poco nello spazio di Anne e Georges: il portiere e sua moglie portano la spesa; l’ex allievo che, ignaro della malattia, viene a rendere visita alla sua maestra; le due infermiere (grandiosa la scena in cui Georges manda via una delle due per l’indelicatezza dimostrata verso la moglie); la figlia della coppia, Eva (Isabelle Huppert), anche lei musicista, la quale vive e Londra, e si rivela una persona che non sa prendere decisioni pratiche (anche lei è protagonista di una scena memorabile, quando parla alla madre di eredità mentre di fatto Anne è totalmente assente).

Ma c’è anche un’altra tipologia di esterno: squarci di Parigi che si intravvedono dalla velatura delle tende bianche e le visioni paesaggistiche che sono i soggetti dei quadri che la coppia possiede: a un certo punto, sono loro l’unica possibilità di fuga verso l’esterno: lo spettatore li vede occupare tutto lo spazio dell’inquadratura, alcuni li ha visti collocati nelle pareti, altri no. E c’è anche un ospite, anzi due, portati dal caso, estemporanei: entrambi entrano dalla vetrata dell’ingresso che dà sul cortile: sono due piccioni, il primo viene subito mandato fuori, il secondo Georges vorrebbe soffocarlo, poi, nella lettera che scrive prima di uccidersi, confessa di averlo liberato. Georges alla fine sceglie di soffocare Anne con un cuscino, dopo averle raccontato un ricordo legato alla propria infanzia; poi diventa un officiante della morte, la prepara e sigilla la camera da letto; a questo punto, lo spettatore scopre un nuovo spazio che aveva solo sentito nominare: la cameretta alla quale si accede dalla cucina: questo sarà il mausoleo di Georges. Anche l’epilogo vede protagonista l’appartamento: ormai è stato ripulito da tutti i segni e le tracce della morte, tutte le porte sono aperte, appare pieno di luce: Eva entra, va a sedersi nel salone, e lo spettatore vede e respira con lei tutta la presenza del vuoto.
Poche volte il cinema riesce con questa intensità a regalare allo spettatore un’esperienza di verità, e a non essere per nulla la fabbrica delle illusioni. Imperdibile.

fravaz_tin_it@hotmail.com

F Pettinari è critico cinematografico