La Bibbia dell’orrore cosmico
di Giuseppe Lippi
dal numero di aprile 2014
Sono parecchie, ormai, le edizioni italiane di tutta o parte dell’opera di H.P. Lovecraft (1890-1937) e anzi chi scrive è costretto a confessare di compitare questo articolo rubando tempo a un’altra attività: la messa a punto della propria. In effetti, il noto quartetto di Tutti i racconti del genio del macabro era uscito per la prima volta nel periodo 1989-1992 per gli “Oscar” Mondadori. Oggi, a venticinque anni di distanza (e senza che l’opera sia mai uscita di catalogo), l’editore intende riproporla non più in quattro volumi, bensì in un unico “tomo-monstre” che apparirà per l’estate. Ma a scanso di accuse di autoreferenzialità, o peggio di concorrenza sleale, devo precisare che di edizioni più o meno complete ne esistono altre, e che Lovecraft è considerato da tempo il santo della letteratura fantastica moderna. Fantastica e nera, fantascientifica e cosmica, gruesome ma con valide ragioni. Qualcuno ha detto anche: ragioni filosofiche.
Tra quelli che meglio hanno spiegato i motivi di tanto interesse da parte del pubblico, c’è l’americano Fritz Leiber (1910-1992), egli stesso un eccellente scrittore di storie neogotiche, fantasy e di fantascienza, ma con un garbo e un bagaglio culturale moderno che già denotano in lui il post-lovecraftiano, il letterato contemporaneo. In un articolo che risale agli anni quaranta del secolo scorso, Un Copernico letterario, Leiber fa intendere a un pubblico specialistico ma colto, avvezzo da una parte a Poe e dall’altra alle compilation tratte dai pulp magazines, che esiste una terza scalea per l’inferno, e che a discenderla, piranesianamente o con Escher, si rischia di non finire affatto nell’inferno canonico, che ormai non esiste più. Diavoli e vampiri, fantasmi e révenants tanto cari all’immaginazione popolare nel XIX secolo (e a quella del XX e del XXI grazie ai film, alla tv e ai fumetti) non sono che imposture, anche se hanno, storicamente, una pietosa funzione: tenere il popolo in soggezione e proteggerlo, con fare paternalistico quanto disinteressato, dalla conoscenza della verità. Conoscenza che riguarda i veri padroni del cosmo, le autentiche divinità, indifferenti o maligne, indigene o novensides ma in ogni caso mai benevole, da cui la realtà è sorretta. Ecco in che senso “Copernico letterario”: Lovecraft sposta il terrore e le minacce alla sanità di mente dalla terra alle stelle, dal purgatorio e dai laghi di zolfo alle lune di Saturno o a lontanissime glassie. Meglio ancora: a quegli spazi, imprecisati dalla geometria non-euclidea e attigui all’universo reale, da cui occhieggiano e occasionalmente filtrano tra noi le antiche entità, i colossali e metadimensionali signori del caos.
Non un caos morale, però: almeno non in senso cristiano. Lovecraft non è religioso, non è neppure agnostico. È ateo, fieramente scientista-meccanicista come si poteva esserlo alla fine del XIX secolo o all’alba del XX. Tiene conto piuttosto della relatività di Einstein e gli spazi inauditi in cui s’infrattano i suoi mostri non sono metafisici, stanno soltanto al di là delle dimensioni che noi possiamo percepire. Né le sue creatures sono semplici alieni (come oggi si dice con dubbio calco dall’anglo-latino), banali extraterrestri insomma, ma simboli dell’alterità, cittadini dell’immaginazione pura. Incontrandoli, ne abbiamo paura e siamo disposti a gettarci dalla finestra per l’orrore che ci assale davanti alla contemplazione del caos, cioè la verità sul nostro universo che è fatto di materia non meno deperibile e peritura dello scoglio su cui viviamo; ma cogliamo anche, in un ultimo barlume, l’entità della sfida, la potenza della visione. Dunque è così che stanno le cose, dunque altri mondi e altre vite si spalancano a perdita d’occhio nel tempo e nello spazio, mortali e soggetti alla follia come la terra che ereditammo; e i grimori diabolici più vietati contenevano allusioni a difformità, potenze calamitose molto più immanenti di quanto credessimo. Ma, soprattutto, le nostre memorie di sogno, alcuni inspiegabili stati d’animo infantili, certi scorci, certi panorami non mentivano. L’umanità non è isolata in una conchiglia ma risuona di echi da tutto l’universo.
La “sostanza dottrinaria” di questa visione, il collante che permette al narratore onirico di diventare narratore leggibile, è ben esposta nella prefazione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini ai Mostri all’angolo della strada, una delle prime e migliori raccolte di Lovecraft uscite nel nostro paese: i mostri di Lovecraft non sono propriamente i marziani ma gli dei dei marziani, sebbene abitino un panteon grottesco e a suo modo materiale. “Liquidato ogni residuo di geocentrismo e antropomorfismo, dimesso ogni antiquato particolarismo religioso, quelle che abbiamo ora sono divinità realmente alla misura del cosmo o, per cosi dire, al passo con le galassie più progredite. Il fatto poi che siano così orrende è certo una sgradita sorpresa; ma in sede di aggiornamento teologale, qu’à cela ne tienne. Quanto all’antichità dell’insediamento sulla terra di queste divinità teratomorfe, si avverta che nessuna delle teofanie a cui stiamo per assistere corrisponde a un primo avvento, trattandosi sempre di ‘risvegli’ o, in alcuni casi, di avventi ulteriori. Se infatti è vero che nessuno degli antichi miti registra l’avvento di mostri identificabili con questi, la ragione è che il loro arrivo precedette la stessa comparsa dell’uomo”.
È chiaro che una simile materia non può prestarsi a sequel, prequel e via serializzando, e che non sarebbe serio parlare di valenti imitatori di Lovecraft. Chi parte in cerca dell’assoluto e finisce per specchiarsi dentro un abisso non corre il rischio di essere plagiato in modo serio. Ma i discepoli di Lovecraft ci sono stati, i condiscepoli anche, gli evangelisti e i tramandatori pure. Come Poe ha nevrotizzato l’epoca moderna, prima dando impulso al racconto breve e poi attaccando a morsi la falsa sanità della letteratura, così Lovecraft ha sradicato per sempre l’idea che potesse esservi posto per una fantascienza “serena” o per un horror di seria prospettiva che prescindesse dall’arcano del cosmo. E questo l’hanno capito in molti, tanto che tra i condiscepoli qualche voce originale infine s’è levata. Il peccato è che di questi autori (un primo nucleo dei quali risale gli anni trenta del secolo scorso) non venga oggi ritradotto quasi niente, almeno in Italia; e che anche in America e Inghilterra si preferisca la produzione di pupazzi di peluche ispirati al mostruoso Cthulhu (uno dei sognanti idoli lovecraftiani sepolti nell’oceano Pacifico) anziché ripresentare i racconti di Clark Ashton Smith, Robert E. Howard, Robert Bloch e Fritz Leiber, cioè i migliori accoliti dell’anti-religio di Lovecraft. Eppure Howard ha contribuito in modo egregio a una fantastoria del mondo, se non dell’universo intero, che sfigura accanto a quella lovecraftiana solo dal punto di vista onomastico (aveva il vizio di far derivare nomi antidiluviani da quelli di lingue postume come il latino o l’italiano). Clark Ashton Smith, dal canto suo, ha saputo rintracciare le sue sirene nella Francia medievale ma anche sul pianeta Xiccarp, e ha popolato dei peggiori negromanti il continente futuro di Zothique.
Howard e Smith, oltretutto, furono contemporanei di Lovecraft e suoi corrispondenti. Il primo è oggi ricordato soprattutto per i racconti di Conan il barbaro, ma l’odissea rossosangue di questo principe dei guerrieri richiama da vicino, sul piano esistenziale, lo specchiarsi nell’abisso del Lovecrft nichilista. Smith è un narratore che a Calvino sarebbe piaciuto, fino a indurlo, forse, a creare una silloge di fiabe lunari o di Saturno. E Leiber, lo abbiamo già ricordato in apertura, non è un romanziere a intreccio quanto un fine tessitore di ragnatele, un progettista di ammirevoli labirinti moderni. Non tanto moderni, comunque, da dimenticare il geniale punto di vista romantico, quello del visionario che osserva il mondo da lontano e già dalla sponda del sogno. Quest’arte, che è andata un po’ perduta nell’horror e nella fantasy commerciale più recente, ha bisogno certo di originalità e stile per avvincere il lettore smaliziato: ma in Leiber lo stile c’è ed è tutto, mentre in Robert Bloch è sopperito dalla potenza dell’allucinazione e del trabocchetto psycologico (come nel suo celebre Psycho, da cui il film di Alfred Hitchcock). In Colin Wilson, l’eclettico scrittore britannico recentemente scomparso e ammiratore di Lovecraft, il gusto del pastiche serve a scopi molto personali, come nell’eccellente romanzo La pietra flosofale che sfrutta alcuni temi della mitologia di Lovecraft per parlare di risveglio della coscienza e allargamento della percezione della realtà.
Quello che accomuna gli scrittori giovani o vecchi del circolo Lovecraft, insomma, è la sensazione che non ci sia mai abbastanza spazio per l’umorismo nero e che i confini di un solo universo non bastino a contenere la beffa della nostra sorte atroce o paradossale. La loro prospettiva è in fondo esistenziale. Venire al mondo è frutto di un esperimento proibito, non di un disegno razionale, e in ogni caso la nostra volontà non vi ha parte. Sopravviviamo e moriamo per l’azione di muscoli automatici, cresciamo e ci moltiplichiamo per breve tempo, non perché lo comandi la bibbia ma perché “esistiti” da potenze organiche di cui fino a ieri non sapevamo nulla. Tuttavia l’occhio della nostra coscienza non si apre soltanto all’esterno, ma all’interno: è questo il senso degli oracoli mostruosi di Lovecraft, che scavano negli archetipi e nell’inconscio della specie più ancora che in quello individuale. Come conseguenza, in Robert Bloch l’occhio empio che in un primo momento ha avuto una fuggevole visione di Providence, la città di Lovecraft, e persino della morte orribile del maestro, si spalancherà sempre più sul caos della personalità schizofrenica, latente in ognuno di noi; mentre in Fritz Leiber, l’architetto più preciso del gruppo, si giungerà a un’intuizione junghiana e artisticamente fertile come quella secondo cui esiste un ponte tra l’abisso del cosmo e quello dell’interiorità, e che su tale ponte si aggirino i paramentali: entità fameliche del non-spazio/non-tempo che rappresentano gli eredi più maturi delle simboliche entità lovecraftiane. Tutti questi autori meriterebbero una rilettura, a prescindere dal capostipite. È ora che l’editoria ci ripensi.
giuseppe.lippi@fastwebnet.it
G. Lippi è direttore editoriale e autore di fantascienza