Se non sei rilevante per l’oggi non lo sarai per il domani
Intervista a Jonathan Franzen di Ennio Ranaboldo
dal numero di aprile 2016
“Avrebbe scritto il grande libro, il romanzo capace di assicurargli un posto nel moderno canone americano. Un tempo bastava aver scritto L’urlo e Furore o Fiesta. Ma oggi conta la dimensione. Lo spessore, la lunghezza”. È Charles che parla, il romanziere frustrato, marito di Leila, una delle protagoniste del suo romanzo. Allora Purity ha oltre seicento pagine. La dimensione importa davvero, o il suo personaggio-autore è pura parodia?
Credo di scrivere libri di taglia media. Si contino le pagine di Underworld, o di Infinite Jest, o dell’Arcobaleno della gravità, e quelle dei miei libri: vedrà che sono assai misurato, nella lunghezza. Ma se di parodia si tratta, è comunque quello che pensa Charles, bloccato dopo il buon successo del suo primo libro. In realtà, molta della narrativa più importante del ventesimo secolo americano è di modesto formato: consideri Faulkner, Hemingway, pensi al Grande Gatsby, al Giorno della locusta, ai racconti di Flannery O’Connor. A un certo punto – e credo la cosa abbia avuto origine nelle università – si è imposta la nozione incongrua che occorresse scrivere un libro monumentale per accedere al canone. È una sventura per molte ragioni, non ultima l’implicita premessa sessista: tutti questi autori maschi impegnati a scrivere il loro… enorme libro; non occorre essere terribilmente freudiani per capire dove si va a parare! Penso che l’intera questione sia una sciocchezza e, naturalmente, se il povero Charles avesse continuato a scrivere romanzi brevi avrebbe forse potuto avere una vita felice. Ma sentiva questo bisogno, questo imperativo e la cosa ha, in un certo senso, distrutto la sua carriera.
I personaggi di Purity si muovono tra Germania dell’Est, Colorado e California, e la giungla boliviana. E la storia si snoda nell’arco di due generazioni, dagli anni cinquanta a oggi. È la prima volta che un suo romanzo è ambientato oltreoceano e attraversa epoche diverse, vero?
Ci sono state, nei miei libri precedenti, cose che accadevano fuori dagli Stati Uniti; nelle Correzioni, ad esempio, ci sono materiali lituani, e vicende in India nel mio primo romanzo (La ventisettesima città, 1988), ma Purity è una storia decisamente più internazionale. Il fatto inevitabile poi è che sto invecchiando, e la mia vita inizia a estendersi su più di un’epoca. Non ho mai avuto un grande interesse per il romanzo storico, e non ne ho ambientati, che so, nel XVI secolo, ma gli anni ottanta e i primi anni settanta sono una storia diversa. Io c’ero!
Purity è anche una storia di figli e di genitori, soprattutto di madri; di scontri generazionali, di amore protettivo e perverso, e di strategie per la sopravvivenza e una qualche non elusiva identità.
Crescere. Se scrivi romanzi speri sempre sia un processo interessante; è la base di ogni Bildungsroman: come evolvere dall’adolescenza a un qualche tipo di funzionalità matura. Una prerogativa perenne del romanzo e, per il lettore, una storia perennemente interessante. Evadere dal luogo puramente reattivo in cui ti trovi da adolescente per ritrovarti in qualche forma attiva di esistenza adulta. Sono contento si noti che invito il lettore a confrontare le madri, che sono tre, del romanzo. Ho deliberatamente scritto un libro in cui si parla di madri? Sì, certo, era uno dei miei intenti. La battuta che cita esprime il punto di vista di Leila, una persona che avrebbe voluto dei figli ma non ne ha avuti; quindi si avverte uno struggimento, un forte sentimento di mancanza. Ma si deve stare attenti a che cosa si desidera, come madre! È il caso di Katya, il cui scabroso rapporto con il figlio pianterà per sempre, nella mente ossessionata di Andreas, la domanda: non sarebbe forse stato meglio non fossi mai nato?
Purity è il nostro presente e molto spazio occupa la più invasiva delle sue strutture, la rete. Ma c’è anche un’appassionata centralità dei personaggi, un omaggio alla complessità delle storie reali, all’irriducibilità individuale. Andreas, la cui vita cattura ogni possibile ambiguità, e distruttività, della rete, pensa tra sé: “Gli sembrava che la rete fosse dominata dalla paura: la paura dell’impopolarità e della marginalità, la paura di mancare qualcosa di importante, la paura di essere attaccato, o dimenticato”.
Dove cominciare? Spero che in Italia non si parlerà di Purity come di un romanzo su internet perché non lo è. Sono rimasto esterrefatto, dopo la pubblicazione in Germania e in Spagna, dove si è detto non solo che era un libro su internet ma che io, notoriamente, odio la rete. Ora, è cosa un po’ insulsa. Uso la rete tutti i giorni, amo la rete, è molto utile e per molte cose. Sono però aspramente critico sui social media e ho serie preoccupazioni sul fatto che la rete, apparentemente libera e democratica, sia di fatto diventata proprietà di quattro grandi imprese. Non penso che, in quest’ambito, la concentrazione di potere sia una buona idea, e credo che i fondamenti economici della rete siano orrendi, soprattutto per i giornalisti e gli scrittori free-lance, e per molte altre persone. È capitalismo in overdrive, e il capitalismo, come sappiamo, non tende esattamente a un’equa distribuzione dei beni. Mi preoccupano – e provo qualcosa tra lo sdegno e l’ilarità – le promesse utopiche di Silicon Valley: possiamo invece, per favore, smettere tutti di fare finta che si stia lavorando per fare del mondo un posto migliore?
Queste sono le mie opinioni personali però, e come scrittore avverto l’obbligo di spingerle ai margini. Non userei mai un romanzo per formulare una critica sociale, promuovere un mio qualunque convincimento. Esattamente il contrario: il romanzo deve essere un caso convinto contro le proprie più radicate opinioni, ed emergerne del tutto indipendente. Il libro non è davvero ostile alla rete. È Andreas che si sente intrappolato dal suo stesso personaggio. Lo scrittore agisce per esagerazioni e concentrazioni di quello che si trova normalmente diluito nell’esperienza di ogni giorno. E Purity è stato scritto in un tempo in cui la gente si pone domande su quanto la rete influenzi la propria identità, nella misura in cui questa è riflessa da ciò che ognuno dice di sé e da cosa altri dicono di noi. C’è quest’ansia diffusa. E Andreas è esempio di qualcuno la cui identità è così dentro la rete da sentirsi svanire, strangolato dal proprio personaggio virtuale; una crisi che lo porta naturalmente a fare confronti tra la società autoritaria in cui è cresciuto, la Germania dell’Est degli anni settanta, e l’insidiosa pervasività della rete.
Mi pare che Andreas sia anche una sorta di moderno eroe tragico, e il fatto che la sua vicenda accada nell’era di internet sembra più circostanziale che fondamentale…
Mi piace questa lettura. Sebbene Andreas sia molto insicuro, sua madre è una studiosa di Shakespeare; lui stesso riflette su Amleto, e sulla tragedia. Non credo di averci pensato in termini del tutto consapevoli ma è vero, è la prima volta che mi cimento con un personaggio compiutamente tragico. E il fatto che la sua ineludibile traiettoria si compia nel tempo di internet ha naturalmente molto meno a che fare con la rete di quanto non ce l’abbia con la natura, compromessa, corrotta e vulnerabile, del personaggio.
Infine, vorrei la sua opinione su un’osservazione di David Foster Wallace, citata dal critico Tom Bissell: “Wallace era convinto che ‘l’uso mimetico di simboli culturali pop mettesse a repentaglio la serietà della narrativa, datandola al di qua del Platonico Sempre in cui dovrebbe risiedere’ ”.
Credo che, in prospettiva storica, si possa sostenere che la letteratura che abita pienamente e profondamente il proprio tempo resista meglio e più a lungo. Pensiamo a Shakespeare, a confronto con alcuni grandi classici francesi. Racine, ad esempio, provava strenuamente a scrivere qualcosa di puro ed eterno, e ha certamente prodotto ottime cose. Ma la straordinaria vitalità, l’empatia di Shakespeare con la lingua e con il suo pubblico, proprio perché radicati nel suo tempo, hanno reso le sue storie immortali. Paradossalmente, è proprio quando si cerca di uscire dal tempo che ci si condanna alla caducità: in fondo, se non sei rilevante per l’oggi non lo sarai certamente mai per il domani. C’è poi un’altra cosa, ovvia. Non posso pensare di scrivere per lettori immaginari dei prossimi cinquant’anni. Non sarò vivo tra cinquant’anni, e non me ne importa davvero nulla! La sola cosa che mi preme è tentare di offrire qualcosa di buono ai lettori che, come me, sono vivi oggi. Mi preoccupo però che nelle traduzioni in lingue e per lettori distanti dagli Stati Uniti – penso al pubblico cinese – non sempre i riferimenti culturali e popolari di un romanzo come Purity siano comprensibili. A volte possono essere indecifrabili anche per un lettore tedesco o italiano. Ma, per fortuna, internet sa tutto e non dimentica nulla. Per quanto sia oscuro il riferimento, naturalmente a condizione che la civiltà duri, sarà sempre possibile rintracciare la fonte e il contesto. Quindi, in un certo senso, internet ci ha liberato da ogni preoccupazione eccessiva sulla durata e la comprensione delle cose, e questo non è certo un male.
Jonathan Franzen – Purity
Con Purity, Franzen intassella vecchia Europa ad America, nord e sud, passato e presente, in una saga ambiziosa che è anche un costante mescolarsi di generi: romanzo di formazione, thriller, avventura e distopia; e di registri narrativi, dall’intimo al quasi picaresco, con molto humor nero e pathos… La recensione di Ennio Ranaboldo (nell’area riservata del sito).
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