La politica americana da un punto di vista femminista e socialista
intervista a Nancy Fraser di Massimo Cuono e Leonard Mazzone
dal numero di giugno 2016
L’incontro con la filosofa americana Nancy Fraser, che si dichiara femminista e socialista, si è svolto a Torino in occasione di una serie di dibattiti e seminari organizzati dall’Unione culturale Franco Antonicelli, il dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino e la rivista “Teoria politica”.
Cominciamo dalla politica americana. Nella campagna per le primarie lei ha sostenuto Bernie Sanders, ma lo scenario che si va consolidando per le prossime elezioni presidenziali è quello di una sfida fra Hillary Clinton e Donald Trump: una donna di grande esperienza, espressione della classe dirigente del Partito democratico, contro un repubblicano che si presenta come il candidato anti-establishment. Come spiega questo esito?
Si tratta effettivamente di una sfida fra una insider e un outsider, in quello che a mio parere è un momento molto favorevole per gli outsider. Con questo non voglio sostenere che Clinton perderà le prossime elezioni, anzi, a questo punto direi che è piuttosto probabile che diventerà presidente. Ma il clima politico di queste elezioni è certamente favorevole agli outsider e Clinton cercherà di usare la carta della “prima donna presidente” per mostrarsi fuori dagli schemi. La novità rappresentata dalla campagna di Bernie Sanders, però, è assai più dirompente; nonostante sia pressoché certo che la candidata sarà Clinton, spero proprio che Sanders non si fermi e continui a battersi per trasformare il partito. In ogni caso, appare chiaro che la classe dirigente centrista del Partito democratico abbia un controllo molto maggiore sulle candidature, rispetto ai Repubblicani.
Si potrebbe dire, provocatoriamente, che il Partito repubblicano è più democratico del Partito democratico?
Certo. Lo si vede anche dal sistema elettorale: per determinare la vittoria del lungo processo di primarie, il Partito democratico ha inventato la figura dei “super-delegati”. Al fianco dei delegati eletti democraticamente nei singoli stati, alla convention estiva siederanno anche i super-delegati, selezionati in maniera non democratica fra i maggiorenti del partito (parlamentari, governatori, sindaci…). Se si sottrae il numero di super-delegati che sostengono Clinton in maniera massiccia, il distacco rispetto a Sanders risulta ancora significativo ma molto ridimensionato. Non esiste nulla del genere fra i repubblicani: i delegati di Trump sono tutti eletti democraticamente durante le primarie. Inoltre, il Partito repubblicano sta affrontando da anni la rivolta della base, rappresentata dal cosiddetto “Tea Party”, rispetto alla quale i dirigenti hanno agito in modo avventato, assecondandone le posizioni. Ora sono in imbarazzo perché non si sono mai opposti politicamente agli argomenti oggi portati avanti da Trump, che sta dando voce agli sconfitti della globalizzazione. Trump si scaglia contro l’ortodossia repubblicana criticando gli accordi di libero scambio e proponendo addirittura nuove tasse, ma lo fa usando l’animosità razzista già propria del Tea Party. Trump sta giocando una partita di classe, rivolgendosi a coloro che non hanno beneficiato della globalizzazione economica, proponendola però come una battaglia razziale, cercando di convincere la classe media bianca che il suo impoverimento sia colpa di neri e immigrati.
Anche in Europa assistiamo a molti fenomeni simili. Come mai, secondo lei, gli argomenti anti-sistema sembrano più efficaci a destra che a sinistra?
Non sono sicura che ciò si possa sostenere per gli Stati Uniti. Sanders sta ottenendo contro Clinton percettuali comparabili a quelle di Trump, che si è per lungo tempo scontrato con molti più avversari; Sanders sta conquistando più del 40 per cento dei voti democratici e ciò dimostra che gli argomenti anti-sistema, se così vogliamo chiamarli, sono efficaci anche a sinistra. Ma oggi anche pensare in termini di destra-sinistra è diventato complicato: durante queste primarie, molti elettori hanno dichiarato di essere indecisi tra votare alle primarie democratiche per Sanders o a quelle repubblicane per Trump. Si tratta di elettori “anti-sistema” che non sanno scegliere quale versione preferiscono. A mio parere, Sanders riesce a conciliare una proposta progressista relativamente alle politiche di riconoscimento – è favorevole all’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, ai diritti delle donne, all’aborto – con proposte di redistribuzione della ricchezza verso il basso in termini di politica economica. Direi che la conciliazione di questi due aspetti sia ciò che definisce un programma politico di sinistra. Trump, che sia sincero o meno – chi può dirlo? – usa una specie di retorica redistributiva che può apparire di sinistra, nonostante sia profondamente nazionalista, unita a una visione fortemente regressiva delle politiche di riconoscimento. Clinton è progressista sui temi del riconoscimento ma, nonostante usi un linguaggio di sinistra sui temi economici, tutti sanno che è la candidata di Wall Street.
Hillary Clinton sarà costretta a spostarsi a sinistra?
Francamente non credo. Nessuno di noi si aspettava un tale successo di Sanders; fino a pochi mesi fa sembrava impossibile che un candidato che si definisce socialista potesse vincere in molti stati e mettere in difficoltà il candidato ufficiale del Partito democratico. Anche Clinton è stata colta di sorpresa ed è stata costretta a spostarsi a sinistra, dedicando molto più spazio, in comizi e dibattiti, ai temi delle diseguaglianze. Ma credo che tutto ciò sparirà non appena verrà eletta; non voglio dire che torneremo indietro alle presidenze democratiche di qualche decennio fa, ma lei non potrà che difendere lo status quo.
Si può forse dire che Hillary Clinton sia l’emblema di quello che lei definisce il “nuovo spirito del femminismo”?
Sicuramente sì. Assieme a suo marito, lei inventò i New Democrats, la nostra versione del New Labour e della terza via: erano e rimangono progressisti in materia di riconoscimento ma allo stesso tempo sostengono politiche liberiste in campo economico. Credo che Hillary Clinton sia una femminista, mi fa piacere chiamarla così e non condivido le accuse di chi sostiene che non sia una “vera” femminista; tuttavia, lei incarna esattamente il modello di femminista neoliberale. Pur non avendolo inventato, fu lei a rendere popolare nel 2008 l’espressione “soffitto di cristallo”, che rimanda al dato di fatto per cui le donne, pur avendone formalmente diritto, non possono accedere a posizioni apicali in organizzazione pubbliche e private. Il femminismo neoliberale è esemplificato bene da questa espressione così come dalla più recente Lean In, titolo del celebre libro di Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook (Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire, Mondadori, 2013), che è una sorta di versione femminile di The Art of the Deal di Donald Trump: un manuale per le donne che vogliono imparare a “giocare duro” nei negoziati con gli uomini. A partire da queste premesse, puoi farti avanti (lean in) esclusivamente se sei Sheryl Sandberg o Hillary Clinton, e puoi permettetelo perché ti appoggi (lean on) su un esercito di lavoratori precari – per lo più donne – che ti puliscono la casa, si prendono cura dei tuoi genitori anziani e dei tuoi bambini. Questo è il significato che Hillary Clinton attribuisce al femminismo e su molte questioni sono completamente d’accordo con lei, ma ritengo che questa sia una visione molto limitata dell’eguaglianza fra i sessi e dell’emancipazione femminile. Si tratta di un femminismo che vuole pari opportunità di scalare le gerarchie esistenti, senza mai metterle in discussione.
Dalle sue lezioni e dai suoi lavori più recenti, sappiamo che la sua riflessione sul femminismo è una parte di un ragionamento più ampio. “L’Indice” si occupa di libri; ci piacerebbe sapere come queste riflessioni rientrano nel nuovo libro che sta scrivendo.
Sarà un libro con l’ambiziosa aspirazione di analizzare il capitalismo e la sua crisi senza limitarsi alla sola dimensione economica. Ampio spazio sarà dedicato alle crescenti contraddizioni generate dal capitalismo finanziario rispetto alle sue condizioni sociali e politiche che abbiamo discusso qui a Torino, ma mi sto occupando anche della dimensione ecologica e ora sto riflettendo su un ulteriore problema – per quanto collegato con gli altri – che riguarda la razza. Questa nuova parte del lavoro rielabora le riflessioni di pensatori come Rosa Luxemburg, David Harvey e Jason Moore per proporre una distinzione, non certo originale, fra accumulazione attraverso lo sfruttamento e accumulazione attraverso l’espropriazione. Questa linea di distinzione si sovrappone a quella che distingue i colori della pelle. Lo sfruttamento richiede che il soggetto debole disponga di forza lavoro da scambiare e sulla quale contrattare. L’espropriazione invece implica una differenza netta, paragonabile a quella fra suddito e libero cittadino. Come nel caso della schiavitù o dell’espropriazione coloniale, oggi alcune minoranze etniche – ma lo stesso si potrebbe dire dei migranti – sono costituite da veri e propri cittadini di seconda classe in ragione della costruzione di nuovi status di matrice razziale. Tuttavia, mi preme mettere in luce che assistiamo allo stesso tempo a straordinari tentativi di riscatto da parte dei soggetti marginalizzati. Una testimonianza in tal senso proviene dalle rivolte dei sans-papiers, esclusi da ogni forma di rappresentanza politica ufficiale. Del resto, in tempo di crisi, sono spesso le persone più insospettabili a far sentire la propria voce.