Disincanto, rabbia, resa
Intervista a Stefano Massini di Tiziana Magone
dal numero di ottobre 2016
Il suo intento, dichiarato nell’introduzione al libro, è quello di fare la «biopsia della parola lavoro – colta nel guado della più grande crisi economica (ma soprattutto sociopolitica) dopo il crack del 1929». Una promessa mantenuta, ma lontano dell’asetticità di un mero lessicografo, il suo testo sa essere ironico nel parlare di santi patroni e indignato per il furto del lavoro non pagato. Una biopsia appassionata la sua.
Le parole non sono mai materia morta, non sono un tessuto ormai cadaverico da analizzare come si potrebbe analizzare un minerale o un sasso. La parola è una materia viva. Di questo noi, troppo spesso, ci scordiamo. La parola non è qualcosa di strumentale di cui noi ci serviamo come di un mezzo asettico. La parola non è solo un veicolo, ma qualcosa che vive e si trasforma continuamente perché è strumento di comunicazione degli uomini e quindi si modifica insieme alla vita degli uomini stessi. Questa è la ragione per cui, secondo me, la stessa analisi di qualunque parola non può mai essere qualcosa di freddo, distaccato e asettico, ma sempre qualcosa di appassionato e accalorato, perché in qualche modo è un’analisi che, oltre a riguardare la parola, riguarda in realtà i cambiamenti, le modifiche e le trasformazioni che interessano la società degli uomini che fanno uso di quella parola. Questa è la ragione per cui la mia è sicuramente una biopsia appassionata e, sotto un certo punto di vista, anche divertita. La definirei vivace, perché nell’aggettivo vivace c’è il termine vita.
Questa sua opera inusuale ha la forma del saggio, ma si legge come una narrazione tanto è felicemente costellata di racconti. C’è una grande differenza tra la scrittura libera della drammaturgia e l’argomentazione puntuale della saggistica, oppure si possono trovare terreni comuni e una forma ibrida di scrittura?
Ho sempre creduto che le divisioni in generi siano superate e servano più per dare un senso agli scaffali di una libreria che non a chi deve scrivere. Nel mio caso, ad esempio, ho scritto un testo come quello sui Lehman con un tipo di stile che non era quello classico della drammaturgia ma che in qualche modo contaminava e mescolava la saggistica con la drammaturgia, la sceneggiatura cinematografica con la narrativa. Evidentemente, quindi, credo nel modo più assoluto che ciò che oggi debba determinare la scelta del tipo di scrittura di un testo sia più che altro il contenuto e non la forma.
Nella sua trattazione, articolata per temi, si serve di fonti ed esempi che spaziano da Diocleziano all’Expo, da Firenze a Savar, da Goldoni al rapporto del Censis. Non si vede una linearità nell’acquisizione o perdita di significati della parola, ma dopo lo studio, la documentazione e la ricerca svolti, pensa si possano riscontrare alcune continuità più persistenti o le più macroscopiche rotture semantiche della parola?
Trattare oggi un tema come quello del lavoro comporta necessariamente una contaminazione fra zone diverse del pianeta, fra esperienze diverse che ci hanno preceduto. Ma anche incursioni curiose, e in qualche modo necessarie, dentro ambiti apparentemente lontani fra di loro, come quello della robotica o quello della futura faccia che avrà il terziario informatizzato. Credo che questa necessità di spaziare sia essenziale perché il tema del lavoro oggi raccoglie e si ciba di problemi e di cause che in qualche modo vengono da ambiti diversi. Quindi questa provenienza da più parti degli esempi di cui mi servo credo sia inevitabile. Detto questo, per me è molto difficile trovare un minimo comune denominatore perché nel libro cerco di spiegare proprio come oggi la parola lavoro sia stata sottoposta ad una tale quantità di stravolgimenti che in qualche modo si respira intorno ad essa un grande caos, direi quasi babelico: la complessità dei fenomeni che il libro affronta non è riducibile.
Il suo libro è attraversato da una profonda tensione etica, ma privo di ogni residuo ideologico, per questo è anche spiazzante: non c’è traccia ad esempio delle storiche rappresentanze del lavoro (politiche e sindacali). La scelta è forte e sembra suggerire che quel lessico e le coloriture della parola sotto quelle bandiere siano ormai diventate materiali da museo etnografico. Oppure questa consapevolissima omissione è il suo modo di tenersi lontano da quella che lei stesso chiama «l’anarchia del parlare distratto»?
Il problema, a mio parere, è che di lavoro si è parlato troppo a lungo con un lessico e con un tipo di bagaglio argomentativo profondamente ideologico. Questo è avvenuto soprattutto perché era figlio di una certa epoca. Io non mi permetto giudizi storico-politici perché non è il mio mestiere, ma rilevo che nel passato si sono formati un lessico e un insieme di griglie di riferimento di tipo argomentativo che scattavano come automatismi ogni qualvolta si parlasse di lavoro. Oggi l’argomento fondamentale, cioè il tema, vale a dire il lavoro stesso, è talmente mutato rispetto a pochi anni fa e, soprattutto, si è trasformato con una tale velocità che una qualunque forma preesistente di trattare il lavoro è diventata incongrua e inadatta. È come se un linguaggio, un dizionario, un vocabolario, fossero rimasti ad un certo punto, in un lasso di tempo molto stretto, estremamente arretrati rispetto a ciò a cui serve usare quel vocabolario stesso, cioè la lingua d’uso. Questo è ciò di cui si cerca di parlare nel libro, cioè il fatto che di lavoro oggi si riesca a parlare sempre meno e sempre peggio perché manca anche il lessico, il dizionario (per cui si ricorre al linguaggio anglosassone, cioè al linguaggio straniero, ad una lingua altra) e al di là di questo manca il mondo di riferimento, perché quello del passato è venuto meno, non è più adatto. Parliamo per esempio del fatto che il lessico sindacale si riferisce prevalentemente al lavoro dipendente e a tempo indeterminato con le tutele che ne conseguono, mentre oggi i problemi più consistenti sono quelli che riguardano i lavoratori precari che non hanno tutele sindacali.
Di fronte alle trasformazioni planetarie dell’organizzazione del lavoro (delocalizzazione, automazione, informatizzazione…) i singoli lavoratori frustrati e sfruttati sembrano del tutto impotenti. Eppure le trasformazioni industriali di Sette-Otto e Novecento hanno prodotto in tutta Europa un grande protagonismo delle masse lavoratrici. Cosa manca alle masse dei nuovi poveri del terzo millennio per imparare a contrastare efficacemente lo sfruttamento 3.0?
Credo che quello che oggi manca rispetto ad un tempo sia paradossalmente proprio la coscienza di appartenere ad una determinata fascia di “persone in crisi”. Prima era molto forte la coscienza di appartenere, ad esempio, al cosiddetto proletariato o al cosiddetto ceto medio, per cui, forti dell’appartenenza a una determinata categoria, era molto più potente l’unione delle forze tra persone che si sentivano parte di una classe. Oggi il problema è proprio che manca questo tipo di appartenenza e manca perché la parabola del lavoro si è trasformata da parabola a sinusoide e da sinusoide a chissà quali altri figure geometriche. Oggi, di fatto, l’estrema precarietà del mondo del lavoro fa sì che un individuo nell’arco di pochissimo tempo possa trasformarsi in un non abbiente, poi in un disoccupato e da disoccupato a dislocato, da dislocato a nuove categorie che si sono venute a creare. Penso, fra tutte, a quella dei pensionati che non erano ancora pensionati ma non erano neanche più lavoratori, la fascia dei cosiddetti esodati.
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