Leggiamo perché fuori piove
di Luisa Gerini
dal numero di dicembre 2015
Una lezione di ignoranza si apre con il ricordo degli “indimenticati”, quei professori che hanno saputo fare la differenza nel suo travagliato percorso scolastico perché capaci di trasmettere curiosità e conoscenza. Perché i passeur sono così importanti nella trasmissione della cultura?
La nozione di passeur è intimamente connessa alla nozione di proprietà, di possesso della cultura. Esistono due modi distinti di relazionarsi con la cultura. Alcune persone, che chiameremo i “guardiani del tempio”, pensano che il proprio bagaglio culturale costituisca una proprietà privata, da condividere unicamente con una cerchia ristretta di persone e considerata sacra al punto da decidere di escludere chi non ne reputano degno. Altre, i passeur, si vedono invece come vettori di cultura. Non si tratta di un principio etico, ma piuttosto di una questione di mentalità, di atteggiamento. Personalmente non ho mai ritenuto di possedere quello che so, mi sento piuttosto simile a un fusibile dentro un circuito elettrico. Non essendoci l’idea di possesso, siamo oltre il principio della condivisione: tutto quello che imparo, tutto quello che scopro, se mi piace e mi dà emozioni, ecco che scelgo di fartelo conoscere perché possa incantare e arricchire anche te.
Come è possibile conciliare l’esperienza della lettura, che è intima e individuale, con lo stimolo a diventare a nostra volta un passeur?
Quando si parla di lettura, ognuno di noi ha il suo “giardino segreto”. Ci sono emozioni che ho provato leggendo un brano che non ho mai raccontato a nessuno, perché era qualcosa di troppo sottile, di troppo personale. Non un bene posseduto, ma un momento di intensa felicità, profondamente intimo. Ecco perché non sono un accanito sostenitore della trasmissione fine a se stessa: comprendo infatti perfettamente che si possa instaurare una certa intimità filosofica con determinati libri, e che si provi al tempo stesso il bisogno di tenere per sé alcune emozioni. Siamo i guardiani del nostro tempio. Il mio non è la cultura, ma certe briciole di sensazioni difficilmente descrivibili, appena percettibili, che posso anche scegliere di non raccontare. Anche se, in linea generale, tutto quello che mi tocca, che mi stimola culturalmente, lo trasmetto immediatamente.
Essere passeur: è un’attitudine innata o che si può acquisire? Quanto è importante che gli insegnanti sappiano svolgere questo ruolo?
È una questione complessa: essere passeur non è una vera e propria professione. In ambito culturale il vero passeur è la sfera affettiva. Il flusso della cultura scorre allora grazie al flusso della sfera affettiva: ti do da leggere quello che leggo io perché siamo amici. Per quanto riguarda gli insegnanti, molti di loro considerano la scuola non tanto come un luogo di trasmissione bensì come un luogo di valutazione. Sezionano un testo eseguendo una sorta di autopsia medico-legale, ma mai leggeranno in classe ad alta voce un brano che li ha colpiti dicendo “Ecco, ho letto questo ieri, ditemi cosa ne pensate”. La pedagogia francese, in modo particolare, ha plasmato gli insegnanti sul modello del “guardiano del tempio”: questo studente può entrare, quest’altro no.
Nelle prime pagine di Una lezione d’ignoranza lei afferma che i professori migliori sono quelli che sanno incarnare la materia che insegnano. Quali effetti ha sull’attenzione degli studenti la capacità di un professore di essere davvero “presente” in classe?
La pedagogia è una branca della drammaturgia: la materia insegnata deve essere incarnata, personificata. Se invece di fare una lezione ex cathedra, sicuramente molto interessante ma rivolta agli studenti migliori che non hanno certo bisogno che si catturi la loro attenzione perché dotati di una attitudine naturale all’astrazione, il professore sceglie di essere presente fisicamente in classe e guarda negli occhi lo studente a cui si rivolge, scherza con lui in virtù dell’intesa che si è creata, allora i concetti prenderanno corpo per effetto di questa teatralità. E sarà riuscito a coinvolgere tutta la classe, anche quegli studenti che hanno bisogno di passare attraverso una “fase di seduzione”. Su quanto questa fase debba essere di natura ludica, i pareri divergono. Alain (Émile-Auguste Chartier), grande filosofo e pedagogo dell’inizio del XX secolo, era assolutamente contrario, pur essendo lui stesso un personaggio singolare. Penso però anche a Vladimir Jankélévitch, un fiume in piena che trascinava con la sua corrente gli studenti. Poteva dire tutto e il contrario di tutto, le sue lezioni erano assolutamente travolgenti.
Quanto conta allora la capacità di seduzione di un professore? Si può parlare di un metodo Pennac?
È limitativo ridurre tutto alla capacità di seduzione. Nel corso degli anni, facendo tesoro anche dei miei errori, ho messo a punto delle tecniche che si possono replicare. Prendiamo l’appello, che per la maggior parte degli insegnanti non è che una formalità amministrativa eseguita senza neppure sollevare lo sguardo dal registro. Uno sguardo che invece può servire a creare una relazione personale con ogni studente, può essere il pretesto per un breve momento di complicità. Sembra una cosa da nulla, ma dà il tono a tutta la giornata, è il diapason che dà il la all’orchestra.
Cos’è per lei l’ignoranza? È l’espressione del malessere di uno studente che non corrisponde ai canoni richiesti dalla scuola o ha un significato più ampio?
L’espressione “lezione di ignoranza” è di un poeta, Georges Perros, diventato professore per sopravvivere perché come tutti i poeti moriva di fame. Arrivando in classe, era solito svuotare sulla cattedra la borsa piena di libri (Pascal, Cartesio, Rabelais, Montaigne) dicendo: “Ecco qui, una piccola lezione d’ignoranza”. Quindi cominciava a leggere ad alta voce e i suoi studenti non erano mai sazi di questa sorta di travaso in loro di tutto ciò che amava. Si tratta di un’ignoranza che vuole scoprire, che è alla ricerca. Che cos’è in realtà l’ignoranza? Semplicemente un altro tipo di conoscenza. Un giorno, all’inizio della mia carriera di insegnante, ho chiesto a un ragazzo di parlarmi della proposizione subordinata relativa. Mi ha risposto: “Questo non lo so, ma posso smontare e rimontare un motorino in meno di dieci minuti”. Ho poi scoperto che viveva così, rubando motorini. Allora abbiamo fatto un patto: la meccanica in cambio della grammatica. Perché se insegni a questo ragazzo che quella che chiamiamo grammatica è la strutturazione del suo pensiero, si appassiona immediatamente. Oppure prendiamo i modi del verbo. Nel film La classe (Palma d’oro a Cannes nel 2008) un professore dice del congiuntivo: “È così che si parlava un tempo”. Da fucilare immediatamente. Perché anche se pensano di vivere all’imperativo, anche se si esprimono solo all’imperativo, gli adolescenti sono paralizzati dal dubbio. Il congiuntivo è il modo verbale dell’adolescenza per eccellenza: è importante che sappiano che esiste un modo che sembra fatto apposta per loro, per esprimere l’indecisione, la crisi, il passaggio da uno stato all’altro.
Libri di carta e e-book: come cambierà la lettura?
Un giorno lo schermo prenderà il posto della carta e questo cambierà il modo di leggere, il modo di percepire il libro, perché ogni parola potrà essere contestualizzata. È il cinema in 3D rispetto al cinema tradizionale. La mia generazione ha una sorta di sensualità legata al libro, al suo odore (che non è quello dell’inchiostro come molti pensano, ma della colla). Si dimentica che i più giovani hanno già sviluppato un altro modo di rapportarsi all’oggetto tecnologico, desiderabile, le immagini brillanti, lo schermo su cui far scorrere il dito. Noi continuiamo a pensare che le librerie abbiano più fascino di quei piccoli rettangoli, ma in futuro sembrerà incredibile pensare alle nostre case piene di carta. Sono rimasto senza parole il giorno che ho letto uno studio sulle probabilità che ha un libro riposto su uno scaffale di essere ripreso in mano per essere riletto: molto vicine allo zero. Tenuto conto che generalmente presto sempre i libri che mi sono piaciuti e che raramente tornano indietro, so già che quelli rimasti non li guarderò più. A rifletterci bene è come se vivessi in un cimitero.
Lei ha scritto che la lettura è un antidoto alla solitudine metafisica dell’uomo. Perché leggiamo?
Perché siamo animali mitologici. Perché non ci limitiamo ai saggi e invece scegliamo di leggere romanzi? Perché abbiamo bisogno di metafore, la razionalità da sola non basta. In Francia, un bel giorno, lo strutturalismo ha decretato la morte del romanzo, al punto che era malvisto sia scrivere che leggere romanzi. Uno snobismo culturale da cui erano esenti i romanzi stranieri e questo ha permesso di scoprire il realismo magico e tutta la letteratura sud-americana. O Il profumo di Patrick Süskind, tre milioni di copie vendute. O i polizieschi come la saga Malaussène, considerati come letteratura underground. Questo bisogno di romanzi, insomma, non è solo intrattenimento: traduce un bisogno metafisico, va a colmare un vuoto.
In realtà (sorride) leggiamo per un’infinità di motivi: per non lavorare, o perché fuori piove.
Pubblicata da Astoria, Una lezione d’ignoranza è la Lectio magistralis tenuta da Daniel Pennac in occasione del conferimento della laurea ad honoris in pedagogia all’università di Bologna, corredata da un breve testo sull’importanza dei maestri.