Guardare, percepire, immaginare
Intervista ad Angelo Ferracuti di Francesco Migliaccio
Dal numero di aprile 2016
Che cosa l’ha portata a eleggere i luoghi visitati? Ha inciso forse la conoscenza pregressa di qualche collega o il valore culturale e letterario del luogo?
Ho cercato di andare dove l’immaginario dell’Italia era più forte, mettendo insieme luoghi eterogenei. Montagna e mare, provincia e aree metropolitane, anche alcune isole. Seguendo certo quelli che erano i desideri della mia immaginazione, ma anche tenendo conto dell’immaginario sociale, degli insediamenti culturali e industriali che più di altri fanno le identità e il conio complessivo del paese, ma sempre fortemente suggestionato dalla presenza di alcuni scrittori italiani del Novecento che fanno parte della mia formazione e che sono un po’ il fil rouge del libro: Biamonti, Bianciardi, Fenoglio, Mastronardi, Pasolini, Volponi, tanto per citarne alcuni. C’è poi l’Etna con tutta la sua straordinaria forza di natura, lo Zen di Palermo come luogo della periferia-mondo, la modernità di Milano, l’Hotel House di Porto Recanati, ma anche una Italia più remota e segreta, fatta di piccoli paesi, terre quiete come quelle molisane o marchigiane, le Dolomiti venete e le alture del Trentino. Tutti frammenti che messi insieme cercano di dare un’idea dell’Italia, oggi.
Nelle ultime pagine scrive che “i brevi reportage sono stati spesso scritti sul campo (…) e hanno mantenuto la forma della presa diretta; perché anche a causa della mancanza di tempo hanno subìto al massimo una seconda stesura, con correzioni e aggiunte”. Mi sembra uno spunto fecondo per ragionare sulle condizioni odierne della scrittura. La forma della “presa diretta” da una parte permette di sperimentare un contatto ravvicinato con le cose. Al contempo le parole nascono in carenza di tempo. Che cosa significa essere scrittori nell’epoca dove tutto pare accelerato e simultaneo?
Non si può fare a meno di cercare di comprendere e vivere il proprio tempo, pur non amandolo. Può essere una scelta a volte anche radicale, dolorosa, e di rifiuto: la grande letteratura nasce anche da questa rottura profonda. Credo che il reportage come forma narrativa sia oggi più malleabile del romanzo, quella che di più riesce a cogliere la complessità perché è un sedimentato di tutto, passato e presente, immaginazione e realtà, citazioni e presa diretta. Da anni cerco di fare reportage con i modi del narratore, cioè raccontando la cronaca, le storie della storia, con le armi della scrittura, quelle della letteratura, cosa che riesce a distanziarmi da quelli del giornalista, che fa un altro mestiere. Ma del giornalista conservo volutamente il brivido della presa diretta, cioè scrivere subito per domani, che è una bella sfida, e incontrare le persone e i loro destini con empatia. In questo libro ho cercato di mantenere, per scelta, quella che è una scrittura primaria, senza quasi mai cambiare i connotati a posteriori a quelle che a volte sono state anche delle illuminazioni, con tutto il portato percettivo e di pensiero appunto poco mediato. Tutto il libro è così, il diario di un flâneur, di uno libero di organizzare il suo racconto senza spiegare niente, di costruirlo nel modo più possibilmente naturale. È dal 2002 che non scrivo più fiction, è la mia risposta corporale alla società mediatica, scrivere libri in movimento, viaggiando, quasi aggredendo la realtà, tornando nei luoghi tantissime volte.
Pochi mesi fa lo stato ha collocato in borsa il 40 per cento del capitale di Poste Italiane. Possiamo prevedere che questa scelta influirà sui lavoratori. Come vede questo processo, lei che in passato si è occupato di lavoro in Le risorse umane e in Il costo della vita?
Ho scritto di lavoro ma non mi ritengo un esperto, a me interessa la condizione umana in un grande momento di trasformazione sociale. Certo che la privatizzazione influirà, probabilmente ci sarà un’accelerazione. Ma i lavoratori hanno comunque un’arma per far valere i propri diritti e dire la propria sulle scelte delle aziende, partecipare e dare forza al sindacato, difendendo i contratti collettivi e i diritti, soprattutto con la mobilitazione quando è necessario. Altrimenti saranno altri a scegliere per loro. La vera assente nell’Italia di oggi è proprio la politica, che non è quella dei partiti, ma l’interesse alle cose collettive, al bene comune; questa è la vera deriva culturale prodotta dal neoliberismo nell’ultimo ventennio. Un’idea individualistica, egoistica dell’esistenza.
Spesso – e penso alle visioni di Taranto e di Palermo – lo sguardo si sofferma sul “degrado”. È una parola che si pronuncia sovente e su cui vorrei riflettere. Che cosa s’intende per “degrado”? Ho avuto la sensazione che spesso, nel libro, vi sia una polarità netta fra la bellezza e le umane lettere da una parte, il “degrado” dall’altra.
Forse è una cifra dell’Italia, del mondo di oggi, la struggente bellezza del passato e l’estremo degrado del presente, il centro e la periferia. Intendo per degrado incapacità di governo, cattiva amministrazione, fuga dalla partecipazione ma anche devastazione paesaggistica. Taranto e l’Ilva riescono a creare scenari apocalittici, e sono il frutto di uno sviluppo che è al capolinea, la contraddizione tra ambiente e produzione industriale, dove di lavoro si sopravvive ma si muore. Lo Zen di Palermo è una specie di mondo a parte con regole proprie, darwinismo sociale agli estremi e anti-stato molto forte. Secondo me più che tra degrado e bellezza, il libro cerca di raccontare nei luoghi lo scontro tra naturale e artificiale, e proprio quelli che vengono definiti dei posti “arretrati” rispetto ai canoni della presunta modernità, sono quelli che ho amato di più e che maggiormente resistono all’omologazione dell’Occidente globalizzato. Bari vecchia, i quartieri a ridosso del porto di Genova, quello di Pietralata a Roma, la Barbagia: lì c’è ancora un’Italia autentica e popolare, vi resta nel bene e nel male qualcosa di comunitario e di collettivo.
Nelle pagine dedicate alle grandi città – penso a Firenze, a Roma – il narratore si confronta con i fenomeni di trasformazione urbana. In questi anni si discute molto di “riqualificazione” e di “rigenerazione” dei quartieri. Un abitante del quartiere san Nicola, a Bari, afferma: “Una volta c’era sempre vita, adesso solo la movida notturna, durante il giorno tutto è morto”. Come può riflettere la letteratura su questi fenomeni?
Credo di essere un osservatore militante. Guardare, percepire, immaginare è il lavoro quotidiano che ogni scrittore fa con i sensi esercitando un pensiero critico. C’è in Italia come ovunque una lotta nei luoghi tra naturale e artificiale, come dicevo, tra lotta per mantenere una autenticità, una propria antropologia, e l’invasione barbarica della globalizzazione che vorrebbe omologare gli habitat e gli stili di vita, le culture, per renderci tutti dei consumatori conformisti ignoranti e ciechi, cioè incapaci di guardare ma soprattutto di immaginare un altro mondo, rispetto a quello che viene definito il migliore dei mondi possibili. La letteratura può raccontare l’invisibile dell’esistenza, ma anche rendere visibili le derive sociali, creare degli allarmi, allertare le coscienze, produrre senso. C’è una frase molto bella a riguardo di Gore Vidal, che cito spesso: “Nelle miniere di carbone in America, i minatori portano spesso con sé un canarino. Lo mettono nel pozzo, e quello canta. E se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire: l’aria è velenosa. Per me, noi scrittori siamo canarini”.
francesco.migliaccio87@gmail.com
F Migliaccio è dottorando presso l’Università di Torino
La recensione di Andare. Camminare. Lavorare. L’Italia raccontata dai portalettere di Angelo Ferracuti di Francesco Migliaccio, pubblicata sul numero di aprile 2016, è accessibile sul sito nell’area riservata agli abbonati dopo aver effettuato il login: L’estinzione degli angeli mediatori.