Una verità tremenda
recensione di Giulia De Florio
dal numero di maggio 2016
Vasilij Grossman
UNO SCRITTORE IN GUERRA
a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova
ed. orig. 2015, trad. dall’inglese e dal russo di Valentina Parisi
pp. 471, € 23
Adelphi, Milano 2015
Heinrich Heine sapeva che senza materia non esiste canto e che è dalla verità del materiale umano che l’arte trae la sua sostanza, così come lo sapeva Stanislavskij quando urlava in faccia ai suoi attori “Non ti credo!” se sentiva che non stavano portando in scena un mondo, ma una sua copia sbiadita, artefatta. Il materiale umano che Grossman fissa sulle pagine dei suoi taccuini e che poi, filtrato e decantato, rifluisce in tutte le sue opere successive è la guerra. Grossman non sa nulla di guerra, “in compenso sa tutto dell’animo umano”, come afferma sicuro il generale David Ortenberg, direttore del giornale “Stella rossa” per il quale Grossman diventa corrispondente speciale al fronte, in prima linea, dall’agosto del 1941 fino alla presa di Berlino del 1945. Quattro anni, con pochi e brevi congedi, da testimone oculare del più grande conflitto del Novecento, quattro anni in cui Grossman è con l’esercito sovietico nei momenti e nei luoghi più memorabili: in Ucraina quando i tedeschi conquistano Orël e costringono l’Armata rossa alla ritirata, a Stalingrado, durante l’epica battaglia casa per casa, a Kursk, nel più grande scontro di carri armati della storia e in molti altri luoghi ancora, fino all’occupazione di Berlino e alla resa della Germania nazista.
I taccuini sono un copione essenziale, la sceneggiatura scarna di un cinema a cui Grossman non assiste da spettatore: si immerge anima e corpo nel ribollire della realtà e persino da lì riesce a ritagliare dal grande affresco bellico storie individuali, nel suo eterno indagare l’uomo di fronte alla storia. Colpiscono le schiette e profonde osservazioni di Orenberg, la leggenda di Babadžanjan (poi immortalato da Grossman nel roboante Il popolo è immortale), l’infaticabile tenacia del generale Čujkov, comandante della 62° armata di Stalingrado: mai soltanto nomi, ma uomini, con cui Grossman discute e condivide momenti di tragedia, paura, entusiasmo, perdita, nei continui smottamenti dell’animo umano in balia degli eventi.
Lirismo insanguinato
Nei brani riportati da Antony Beevor e Luba Vinogradova (curatori del volume), si mischiano orrore e sublime, l’occhio di Grossman registra momenti di immensa poesia, ma non può fare a meno di unirli al sangue e alla violenza perché così gli si pongono davanti agli occhi: i fiori, l’erba, la terra intera è intrisa di dolore e morte. Sopra ogni cosa un cielo onnipresente, nero come la notte della Stalingrado assediata, arancione e rosso per gli scoppi dei mortai e le bombe degli aerei, bianco-latte nei giorni di snervante attesa della prossima mossa. I minuziosi dettagli delle trincee, delle casematte rase al suolo, dell’inferno di Treblinka non rispondono a un gusto sadico per l’orrore. È la brutalità del dato di fatto, della lista, dell’accumulo, dell’insieme dei frammenti che soli possono restituire il quadro completo, spaventoso nel suo insieme. La precisione cechoviana e la parola nuda e affilata di Šalamov: tutto sembra convergere in queste brevi note, non pensate affatto per la pubblicazione, ma in cui è inevitabile intravedere l’alto magistero della scrittura di Grossman.
Negli appunti di guerra Grossman non cerca soluzioni definitive, non è preda di pensieri e conclusioni affrettate; quando non è impegnato a scappare dai tedeschi o a leggere Guerra e pace (è l’unico libro che legge, due volte, durante tutto il conflitto) osserva, riflette e testimonia. Nemmeno a Berlino si lascia andare all’euforia, a fanatici entusiasmi; ascolta le donne tedesche violentate dai soldati russi, vede e descrive le razzie dell’Armata rossa, ai suoi occhi non meno brutali di quelle del nemico e poi appunta, in mezzo a tutto questo, una scena talmente ordinaria da sembrare un miracolo: “Un soldato tedesco ferito abbracciato a una ragazza, un’infermiera. Non vedono niente e nessuno. Il mondo per loro non esiste. Quando ripasso di lì un’ora dopo, sono sempre seduti nella medesima posizione. Il mondo non esiste, sono felici”, un’immagine così banale eppure incredibile nell’impressionante diorama di Berlino in fiamme. Incredibile anche perché raccontata da un russo ebreo la cui madre è stata uccisa da quegli stessi tedeschi, a Berdičev. Di quella morte lo scrittore porterà sempre il peso.
“A volte sei talmente sconvolto da quello che hai visto che il sangue defluisce dal cuore, e sai già che l’immagine più terribile balenata davanti agli occhi ti perseguiterà e ti graverà sull’anima fino alla fine dei tuoi giorni”. Lo scrive Grossman nell’Unione Sovietica del 1944, ma potrebbe averlo scritto oggi un sopravvissuto del Bataclan, un giornalista siriano o curdo, un reporter in Venezuela o in Cecenia. Dopo Treblinka, dice Grossman, “chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità”. E di capire che la guerra è ovunque e che, forse, l’unica salvezza non è cancellare il passato, ma farne memoria viva.
julia.deflorio@gmail.com
G De Florio insegna lingua e traduzione russa all’Università di Parma
Di Uno scrittore in guerra parla anche Maria Ferretti, insegnante di storia russa all’Università di Viterbo, che aggiunge alla recensione di Giulia De Florio una riflessione personale sulla genesi e la struttura del testo. Mimmo Candito analizza invece la scrittura di Grossman attraverso gli occhi di un corrispondente di guerra.