Il bianco apre la strada che porta fino a te
recensione di Luigi Marfè
dal numero di novembre 2016
Edmund de Waal
LA STRADA BIANCA
Storia di una Passione
ed. orig. 2015, trad. dall’inglese di Carlo Prosperi
pp. 413, € 20
Bollati Boringhieri, Torino 2016
«L’oca delle nevi non deve lavarsi per esser bianca, tu non devi far nulla per essere te stesso», dice Lao Tzu: la forza di seduzione del bianco risiede, per il saggio, nel suo saper essere, da sempre, senza sforzo, quello che già è. Per secoli l’uomo ha cercato gli ingredienti di questo segreto, la formula per riprodurre il candore del bianco. La storia tortuosa di questa ricerca è oggi raccontata da Edmund de Waal, tra i più noti ceramisti del mondo, in La strada bianca, che narra la nascita dell’«oro bianco», la porcellana.
La strada bianca è nello stesso tempo un memoir, un libro di viaggio, un saggio di ricostruzione storica, ma è soprattutto l’anatomia narrativa di una serie di oggetti d’arte. «Tutto è un segreto quando si parla di porcellana. Tutto custodito a doppia mandata», ricorda de Waal, e il suo libro è anche un romanzo giallo, che narra i tentativi dell’uomo di far saltare la serratura, aprire la porta. La sua scrittura ha il fluire ricco, latteo delle decorazioni sulla porcellana: «Alcuni grandi vasi recano una narrazione continua, immaginate il gesto di aprire un rotolo, svelando un pezzo di storia per volta». Si comincia con Marco Polo che dai suoi viaggi – «chiunque torni dalla Cina, torna con notizie» – riportò un materiale bianchissimo, sinuoso, sottile, che lasciava trasparire la luce, eppure era duro, veniva dalla terra.
Perfezione e ossessione
A lungo gli europei cercarono di riprodurlo, invano. Chi ne sapeva di più erano i gesuiti, in particolare François Xavier d’Entrecolles, padre missionario nello Jiangxi, che si avvicinò a scoprire la mistione di materiali che ne stava alla base. Il Re Sole se ne appassionò e il ministro Colbert, stufo delle costose importazioni, cercò di farla produrre in una manifattura nazionale, da cui tuttavia non poté cavare altro che maiolica. Si dovette attendere le intuizioni di un matematico, Ehrenfried Walther von Tschirnhaus, studioso di teoria della luce, e di un alchimista, Johann Friedrich Böttger, che alla corte di Augusto il Forte, elettore di Sassonia e re di Polonia, produssero la prima porcellana europea, che poi avrebbe reso possibili gli artefatti di Meissen. Ma ogni nazione faceva storia a sé, poiché ciascuno teneva stretti i suoi segreti, così la storia di de Waal prosegue con i tentativi dei vasai inglesi, fino a quando la porcellana divenne patrimonio comune e passò, nel secolo successivo, da segreto principesco a soprammobile borghese. Allora fu deturpata in oggetto di culto per estetiche minori, addirittura venerata dai nazisti, in particolare da Heinrich Himmler che, in uno stabilimento presso Dachau, ordinò di produrre orribili statuette di porcellana per il Führer, nella convinzione di rinverdire i fasti di Meissen.
«Ci sono tante altre cose bianche nel mondo, ma la porcellana, per me, occupa il primo posto», ammette de Waal. Il bianco è per lui un caleidoscopio di sensazioni: luce, purificazione, lutto, perdono, perfezione. Il bianco apre una dimensione «gravida di attesa, di possibilità. È un materiale che registra ogni movimento del pensiero, ogni cambio di idea». La porcellana «inizia altrove» e «ti porta altrove»; il ceramista, come lo scrittore, vi trova l’occasione di mutare il mondo in racconto: «essere visibile è essere bianco», secondo le parole di Wallace Stevens. La porcellana sarebbe insomma uno di quei materiali che «trasformano gli oggetti in qualcos’altro»: è «alchimia», non esita a dire de Waal, che, tuttavia, commentando il disegno L’alchimista di Pieter Bruegel il Vecchio, ricorda anche come in fiammingo «al ghemist» volesse dire: «Tutto è andato male». Dietro la liscia superficie del bianco si agiterebbe infatti il furore di un’ossessione, la stessa brama di infinito che muoveva i cercatori della pietra filosofale, lo stesso desiderio di assoluto che uccide la vita: «Che cos’è il bianco? È il colore del lutto, perché spegne in sé tutti i colori». La porcellana rivela anche la fredda, disumana solitudine insita nell’ansia di perfezione: «Credo di conoscere le insidie di un’ossessione per il bianco, l’attrazione verso qualcosa di così pulito, così totalizzante nella sua apertura al possibile, da trasfigurarti».
Un modo delicato di attingere all’infinito
«Provai a pensare una cosa più sola / di quante ne avevo vedute», ha scritto un giorno Emily Dickinson. La porcellana, con il suo modo delicato, impercettibile di attingere all’infinito, riscatta il valore dell’individuale sul collettivo, dell’istante sull’eterno. De Waal – pronipote di Charles Ephrussi, tra i proprietari della «Gazette des Beaux-Arts», amico di Proust, che proprio a lui si ispirò per immaginare il suo Swann – pensa che l’uomo sia sempre uomo-più-cose.
Fare il vasaio è per lui come «fermare un pezzetto di mondo», rimettere ordine al cosmo, far ripartire il giorno della creazione. E in questo modo stare bene, trovare conforto, dare un senso al proprio lavoro: nel libro è citato il Primo Levi di La chiave a stella (1978), tra i preferiti di de Waal, secondo cui gli oggetti danno il «vantaggio di potersi misurare, del non dipendere dagli altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera». Ma chi sta parlando qui? Il vasaio, o lo scrittore? L’arte – amava dire Paul Celan – è «qualcosa che accade» allorché sorge quello speciale silenzio in cui un «pauroso ammutolire» diventa «presagio della poesia». Come il bianco, della pagina o della porcellana, che apre lo spazio per «trovare una strada che ti porti fino a te».
L Marfè è insegnante
La recensione di Marco Maggi del Libro del mese di Novembre 2016 La strada bianca Edmund de Waal: il narratore e il vasaio (riservata agli abbonati) e l’approfondimento in occasione della pubblicazione di Irrkunst. Edmund de Wall in occasione dell’esposizione della primavera 2016 nella galleria Max Hetzler di Berlino