Lucide negoziatrici del proprio ruolo
recensione di Elisabetta Grande
dal numero di gennaio 2016
Ivana Acocella e Renata Pepicelli (a cura di)
GIOVANI MUSULMANE IN ITALIA
Percorsi biografici e pratiche quotidiane
pp. 211, € 18
Il Mulino, Bologna 2015
Aprire squarci sull’universo femminile dell’islam italiano attraverso le voci e i pensieri delle giovani figlie della migrazione, significa abbandonare i luoghi comuni sulle questioni di genere nel mondo islamico per offrire al lettore uno sguardo sull’altra proveniente, per una volta, dall’altra. Significa, cioè, dar voce a chi non la trova nei media nazionali, che pur di lei e a suo nome parlano, pregni come sono di una visione affetta da un’insopportabile superiorità posizionale, banalizzante e distorsiva. Significa, insomma, mettere in discussione con forza gli stereotipi che, a distanza di decenni dalle prime significative migrazioni in Italia dai paesi islamici, non smettono di accompagnare gli italiani quando si rappresentano la vita e le relazioni familiari delle donne musulmane. È questa l’operazione culturale tentata con successo dal libro curato da Ivana Acocella e Renata Pepicelli, che raccoglie i risultati di una ricerca condotta attraverso interviste a giovani donne fra i sedici e i ventotto anni, figlie di genitori provenienti dal Marocco, dal Pakistan e dal Bangladesh, nate e/o cresciute a Roma, Padova e Firenze. L’obiettivo delle autrici è indagare la soggettività femminile islamica, facendo intersecare diverse linee identitarie, che interagiscono nella costruzione del sé delle donne musulmane. La soggettività delle intervistate è così analizzata tenendo presenti una pluralità di registri. Si tratta non soltanto dei profili del genere femminile cui esse appartengono, della dimensione religiosa che vivono o della doppia spinta identitaria cui rispondono, l’una proveniente dalle origini familiari e l’altra dal richiamo all’omologazione del contesto occidentale in cui sono cresciute. Tali dimensioni dell’identità delle intervistate si incrociano, infatti, anche con quelle della classe sociale, del contesto abitativo – più o meno islamofobo –, dell’età, del colore o dell’essere straniera, perché la costruzione del sé di una figlia della migrazione è certamente diversa a seconda di come tali linee identitarie si intrecciano.
Un quadro plurale e articolato
L’interessantissimo quadro che ne discende è quello di una dimensione soggettiva delle giovani musulmane, che, al contrario di ciò che ci viene di norma prospettato, non è riconducibile né riducibile a uno schema fisso e unitario, ma è invece plurale e articolata, ricca di sfaccettature e interpretazioni personali, nonché in costante evoluzione. È soprattutto una dimensione che nulla ha a che vedere con la rappresentazione dell’identità della donna musulmana predominante in occidente, la quale nell’immaginario collettivo è vittima di un sistema oppressivo e barbaro che la rinchiude fra le mura domestiche e le impone il velo. Né prigioniere contro il loro volere né sciocche ventriloque di un sistema patriarcale che ne opera il lavaggio del cervello, le giovani musulmane intervistate sono lucide negoziatrici del proprio ruolo femminile, dentro e fuori casa, anche quando meno ce lo aspetteremmo. Anche quando, cioè, la loro identificazione religiosa nella veste di buone figlie si sostanzia in forme di passività nei confronti di un islam ereditato e non autonomamente rivisitato, ma pur sempre consapevolmente partecipato. Molto spesso, però, il discorso e le pratiche dell’islam sono riconquistati e rinnovati dalle giovani intervistate attraverso uno sforzo interpretativo delle fonti di tipo individuale. Le “buone musulmane” di cui ci parla Katia Cigliuti o “le femministe islamiche” cui fa riferimento Renata Pepicelli, si riappropriano infatti dei testi sacri rileggendoli al femminile, spesso nella versione tradotta in italiano e grazie alla più avanzata tecnologia delle pennette, dei tablet , delle cuffie, dei cellulari o di you tube; ciò che, già sul piano dell’immagine, produce un mix fra modernità e islam cui la mentalità occidentale non è preparata, abituata com’è a raffigurarsi la donna musulmana come arretrata, tutta casa e veli.
L’islam femminilizzato che rappresenta il superamento della contrapposizione fra modernità occidentale e conservatorismo islamico, evidente anche nella recente “gendrizzazione” delle moschee, ci pone allora di fronte a nuove sfide e nuove riletture di noi stessi e delle nostre conquiste di civiltà. In particolare, se la laicità nella nostra società non significa laicismo, ma “passaggio fra un mondo nel quale non credere era impensabile a un mondo nel quale credere diventa un’opzione possibile, ma personale” (Debora Spini che richiama Charles Taylor), allora nuovi spazi di tolleranza dovrebbero essere offerti a chi sceglie di praticare un credo. In quest’ottica le discriminazioni sul lavoro e nelle relazioni sociali subite da chi indossa il velo, denunciate da molte fra le giovani musulmane intervistate, costrette pertanto a rinunciarvi, nel sovvertire il luogo comune per cui è la tradizione islamica a imporre l’abbigliamento femminile, dovrebbero condurre a interrogarci sulla effettiva natura delle nostre società, che pur definiamo laiche e liberali. Questo libro ci aiuta a farlo.
elisabetta.grande@uniupo.it
E Grande insegna sistemi giuridici comparati all’ Università del Piemonte orientale