Un bene da difendere e promuovere
di Ada Vigliani
dal numero di ottobre 2016
L’ampio piazzale che, sulle colline di Firenze, si apre di fronte alla Villa Medici di Castello, sede dell’Accademia della Crusca, ha preso da qualche anno il nome di Piazza delle Lingue d’Europa. Non a caso fra gli obiettivi di questa antica istituzione, il cui compito primario è lo studio e la salvaguardia della lingua italiana, troviamo oggi anche “l’acquisizione e la diffusione della conoscenza storica e della coscienza critica della nostra lingua nel quadro degli scambi interlinguistici del mondo contemporaneo”, nonché il proposito di “collaborare con istituzioni affini di Paesi esteri e con quelle governative italiane ed europee per promuovere il plurilinguismo nel nostro continente”.
Obiettivi e dichiarazioni di intenti che lasciano indovinare, in ombra fra le righe, anche la figura di chi è sempre stato in prima linea per promuovere questo lavoro di scambio e di mediazione linguistica e culturale, vale a dire il traduttore, colui che trasporta da una lingua all’altra parole, frasi, discorsi e soprattutto libri – se vogliamo, come è questo il caso, restringere l’obiettivo sui “viaggi” compiuti dalle opere letterarie dei diversi paesi e sulle traduzioni che ne sono il risultato: Anna Karenina in italiano, Storia universale dell’infamia in francese, Il Canzoniere in tedesco, I sommersi e i salvati in inglese, I Buddenbrook in portoghese, Gita al faro in spagnolo, Casa di bambola in russo e così via.
Le traduzioni, pallido surrogato per chi non può leggere l’originale?
Che cosa rappresentano queste traduzioni per i lettori delle lingue d’arrivo? Un pallido surrogato per chi non può permettersi la lettura dell’originale? Se così fosse, se così fosse sempre (perché molto spesso lo è), la traduzione avrebbe un semplice ruolo di servizio, un ruolo marginale e spesso fuorviante, dai risvolti decisamente negativi per lo sviluppo della lingua di arrivo. Con conseguenze gravissime per tutti noi, basti pensare a quanti libri leggiamo in traduzione. Se l’italiano delle traduzioni – e vogliamo ora concentrarci sulla nostra lingua – non fosse in fondo un vero italiano, ma solo il calco scialbo dell’originale oppure un italiano artificioso o un omogeneizzato di parole, una lingua nell’uso della quale il traduttore non ha il coraggio dell’invenzione, né profonda sensibilità per i registri linguistici, per la musica del testo e la peculiarità delle descrizioni, a che cosa servirebbe la tanto giustamente lodata promozione del libro – e del libro anche in traduzione – soprattutto fra i lettori più giovani? Certo, i giovani si avvicinerebbero comunque ai temi che la letteratura propone, ma dal punto di vista linguistico imparerebbero a scrivere bene a loro volta? Sicuramente no: se l’italiano delle traduzioni non riuscisse ad essere nulla di meglio, offriremmo alle nuove generazioni il modello di una lingua sempre più povera e banale, quando non addirittura sgrammaticata. E tutti noi rischieremmo di perdere la capacità di usare con competenza l’italiano. Fortunatamente però abbiamo molte traduzioni di classici o di opere recenti e recentissime che sono scritte davvero in italiano e a volte rappresentano un valore aggiunto nell’evoluzione della nostra lingua.
Se la lingua italiana è o deve essere un bene culturale da difendere con risorse economiche e strategie culturali, al pari di quello che giustamente si proclama di voler fare sempre meglio a vantaggio del nostro patrimonio artistico, se l’equazione lingua italiana = bene culturale è già sul punto di diventare ovvia non solo per gli addetti ai lavori, ma persino nella mentalità corrente, è necessario allora che anche l’italiano delle traduzioni venga promosso e salvaguardato come bene culturale. La traduzione letteraria però, in particolare in Italia, non gode di tutte le attenzioni che meriterebbe, né per quanto riguarda il posto che le viene riservato nella filiera del libro, né per i riconoscimenti economici e di immagine di cui dovrebbero godere i traduttori. Certo, oggi abbiamo scuole e laboratori di traduzione, seminari, convegni, premi per la traduzione e riviste anche serie e profonde che affrontano il tema. Dovremmo dunque poter dire che la situazione è migliorata, eppure nonostante tutte queste iniziative l’importanza della traduzione non è ancora un dato acquisito.
Ancor oggi o, in certi casi, proprio oggi il traduttore si trova abbandonato a se stesso, sempre più solo. È anche vero che persino l’iconografia va a sostegno di questa solitudine: san Girolamo, il nostro patrono, è un eremita che infiniti dipinti ritraggono laggiù nel deserto, intento a tradurre la Bibbia. Al suo fianco il famoso leone, come sostentamento soltanto radici e locuste. Non a caso i compensi spesso da fame offerti al traduttore ben si accordano con i magri pasti del santo: e forse è per questo che, fra gli editori, alcuni si sentono quasi autorizzati a puntare sulla voce traduzione per ridurre i costi, quando i tempi sono duri, si legge poco e poco si vende. Riduzione dei compensi dunque, scelta al ribasso delle persone cui affidare una traduzione e riduzione dell’apporto fondamentale che un editore degno di questo nome dovrebbe dare al traduttore per la buona riuscita del libro che ha deciso di pubblicare: la revisione editoriale.
Una buona revisione editoriale, anzi spesso la revisione tout court, sta diventando sempre più rara in Italia, e i danni sono sotto gli occhi di tutti. Ogni traduttore, esperto o meno esperto, necessita del confronto con il revisore per corroborare le proprie scelte, per discutere l’interpretazione di passi ambigui, per essere “salvato” nel caso di errori, di distrazioni. E il rapporto con un buon revisore è proficuo anche e soprattutto per la maturazione del traduttore, è spesso la migliore scuola di traduzione.
L’assenza di una revisione oppure una revisione sciatta e poco affidabile può significare, per chi traduce, il passaggio da quella solitudine feconda, che nasce dal confronto con sé stessi di fronte all’autore – sempre momento fondamentale del lavoro di traduzione –, a uno sterile isolamento che rischia di indurre persino i traduttori di lungo corso a un nevrotico controllo all’infinito del proprio lavoro, con “il meglio nemico del bene” pronto a insinuarsi fra le righe.
Ma il confronto con il nostro editor, per quanto imprescindibile, non è sufficiente per salvarci dall’isolamento. Altrettanto fondamentale è il confronto con i colleghi, con quelli italiani cui chiedere aiuto nella resa di un passo, ma anche con quelli di altre nazionalità, in primis con coloro che traducono verso la nostra lingua di partenza, per avere la certezza d’aver colto le sfumature dell’originale, di aver individuato la frase idiomatica magari desueta etc. Particolarmente affascinante è poi il rapporto con i colleghi stranieri che traducono ciascuno nella propria lingua la stessa opera alla quale stiamo lavorando anche noi. Questo comune sforzo, a partire da un retroterra linguistico e culturale diverso, ci consente di ampliare la visione del testo, di scoprire le affinità e le differenze culturali fra noi, è un modo per abbattere barriere nella costante consapevolezza dell’esistenza di confini fra le lingue e le culture. Tutto questo oggi è possibile farlo in modo per così dire virtuale, grazie a uno scambio di mail, a un incontro su skype, a un messaggio magari vocale su whatsapp.
L’Europa dei traduttori
Così ad esempio – e mi permetto qui un accenno a un’esperienza personale – con alcuni colleghi stranieri, che ho rintracciato e con i quali da quasi otto anni siamo riusciti a restare uniti in una sorta di “comunità dei traduttori di Sebald”, abbiamo tradotto “parallelamente” verso il finlandese, il greco, l’ungherese, l’ebraico, l’inglese e l’italiano alcuni libri del grande scrittore tedesco emigrato in Inghilterra e morto prematuramente quindici anni fa, chiarendoci a vicenda le difficoltà, chiedendo aiuto a chi fra noi aveva già tradotto quei testi, magari al tempo in cui Sebald era ancora vivo e, con la sua cortesia un po’ distaccata unita a un grande interesse per la traduzione, aveva sciolto i dubbi dei suoi traduttori. Un’esperienza analoga è possibile anche semplicemente in coppia, e un lavoro a stretto giro di mail, capitolo dopo capitolo, sera dopo sera: l’ho fatto per alcuni libri con una collega olandese alla quale mi unisce una grande affinità, dovuta anche alle comuni letture e agli stessi autori tradotti nel passato.
Ma per quanto proficuo e appassionante, per quanto il regolare scambio di messaggi riesca a creare fra noi anche una forma di amicizia a distanza, è solo con il lavoro allo stesso tavolo che tutte le potenzialità del “tradurre fra le lingue” si sviluppano al meglio. Per poterci incontrare abbiamo bisogno di centri che offrano ospitalità gratuita in foresterie capienti, tranquille e ben attrezzate, con ricche biblioteche e adeguati spazi per lavorare, magari a fianco di un collega che sta traducendo il nostro stesso libro, centri dove si possano organizzare incontri fra i traduttori e il loro autore o corsi di aggiornamento reciproco fra noi.
Molti paesi europei sono attrezzati in questo senso, la Germania e i paesi di lingua tedesca in particolare: dalla Casa dei traduttori di Looren che si affaccia sul lago di Zurigo o a Villa Garbald nella quiete dei Grigioni, dal berlinese Literarisches Colloquium sul Wannsee alla tenuta di campagna di Gut Siggen, a pochi chilometri dal Mar Baltico, e anche e soprattutto al Collegio europeo dei traduttori di Straelen (una cittadina della Vestfalia sul confine olandese, a un’ora di viaggio da Maastricht), il primo e il più grande centro internazionale dedicato ai traduttori letterari con una biblioteca di 125.000 volumi e trenta confortevoli stanze per i suoi ospiti, voluto e sostenuto finanziariamente dal Land Nord-Reno Vestfalia e da altre istituzioni.
Da noi a Roma la piccola Casa delle traduzioni fa quello che può, pur nei suoi spazi limitati, con le sue numerose e lodevoli iniziative. Ma avremmo bisogno di un vero e ampio Centro residenziale per la traduzione sul modello di quelli che ho citato, dove i traduttori italiani possano incontrare i loro colleghi stranieri e dedicarsi, senza necessità di chiedere sempre ospitalità Oltralpe, a quella feconda attività che è il “tradurre fra le lingue”.
Due mesi fa, proprio di ritorno da Straelen, dove avevamo incontrato la scrittrice tedesca Jenny Erpenbeck e trascorso con lei una settimana di lavoro sul suo ultimo libro, noi traduttori ci siamo risentiti per commentare, fra l’altro, il risultato del recente referendum britannico: alcuni di noi hanno osservato che forse la piccola Straelen avrebbe qualcosa da insegnare alla vicina Maastricht e tutti abbiamo concluso che, “Brexit o non Brexit”, l’Europa dei traduttori, anzi l’Internazionale dei traduttori, continua e continuerà comunque a esistere nella sua integrità, sempre più vivace e coesa grazie soprattutto al moltiplicarsi degli incontri fra coloro che ne fanno parte.
Fra la Piazza delle Lingue d’Europa di fronte alla nostra Accademia della Crusca e il Collegio europeo dei traduttori di Straelen mi capita talvolta di immaginare una linea di congiunzione, grazie alla quale i nostri auspici circa la salvaguardia della lingua italiana e la valorizzazione dei rapporti interlinguistici potrebbero finalmente concretizzarsi – anche da noi – in iniziative volte a promuovere la traduzione letteraria come bene culturale e a mettere il traduttore nelle condizioni di svolgere al meglio il proprio lavoro.
a.vigliani@hotmail.com
A Vigliani è traduttrice dal tedesco