Una storia di schizofrenia
di Vittoria Martinetto
dal numero di dicembre 2015
Scrivo in prima persona perché, malgrado l’invisibilità che per un traduttore è regola, paradossalmente non c’è niente di più visibile che esporsi esprimendo con le proprie parole quelle che qualcun altro ha scelto ad arte per comunicare storie e idee. Poi, mettere il proprio nome accanto al suo, firmando, come un impostore, qualcosa che i lettori attribuiranno all’autore e solo a lui, nella maggior parte dei casi ignorando perfino l’idea di una versione originale. Provate a chiedere in giro. Strana storia di schizofrenia, quella del traduttore letterario, tanto più che, rimanendo nero su bianco, la sua opera potrà sempre essere confrontata e messa in dubbio, da cui un destino di provvisorietà.
Sicché mi concedo un minimo di autobiografia traduttoria. Sono stata iniziata al mestiere da Angelo Morino, colui che rimane, per me, il più raffinato traduttore di autori latinoamericani in Italia, grazie alla sua sensibilità per la lingua e al suo fiuto letterario, che lo hanno reso prezioso consigliere di tante case editrici. Come lui, ho tradotto compatibilmente con il mio impegno di docenza, facendo a mia volta della traduzione letteraria oggetto di insegnamento.
Ho tradotto da tutte le lingue che so. Ma principalmente dallo spagnolo e dal portoghese. Ho avuto il privilegio di cimentarmi con giganti come Borges, Carpentier, Cortázar e Vargas Llosa, ma la più grande sfida, perché protratta nel tempo, è quella che mi vede oggi unica traduttrice dello scrittore portoghese António Lobo Antunes, da anni annoverato nella lista dei candidati al Nobel. Quindi parlerò del mio corpo a corpo con la sua scrittura.
Innanzitutto va detto che Lobo Antunes è essenzialmente un poeta che scrive romanzi. I suoi libri sono costellati di intere frasi ripetute che sorgono e risorgono come ritornelli dalla bocca dei suoi narratori: frasi che sono, a loro volta, variazioni di temi ricorrenti con innumerevoli modulazioni di tonalità in un esercizio di composizione musicale che conferisce alla sua scrittura quel carattere di parola essenziale che l’autore insegue. Contribuisce anche alla poeticità della sua prosa il fatto che lo scrittore rifugge la mimesi nell’articolare le voci dei suoi personaggi, presentandole sempre come filtrate da quella “fermentazione della memoria”, come la chiama lui stesso, che è la vera protagonista di tutti i suoi romanzi, il grande motore nascosto che genera le sue storie.
Un testo di Lobo Antunes suscita sempre sorpresa nel lettore, dalla disposizione grafica fino all’associazione di parole e di immagini a dir poco insolite. Si tratta di un universo fittizio dove di continuo, con sottile umorismo, si trova un’umanizzazione degli oggetti e, per contro, una reificazione degli elementi umani, grazie al ricorso a tutte le possibili declinazioni della metonimia. Questo mondo rivestito di alterità si basa su un prospettivismo espresso in streams of consciousness di matrice orale, che tendono a esasperare la soggettività dello sguardo. Vi si aggiunga una decostruzione narrativa fondata sulla moltiplicazione, l’alternanza e la sovrapposizione di diversi cronotopi, che origina un discorso frammentato da omissioni e incongruenze, dove non di rado vengono forzate le regole sintattiche della lingua. Si tratta, insomma, di una scrittura che costringe il lettore a ricreare da sé la tela logica del romanzo, sforzo pienamente ricompensato da una narrativa che lo perturba e al tempo stesso lo seduce.
Da quanto detto, si desume che Lobo Antunes venga recepito come un autore difficile e di conseguenza come un’enorme sfida per il traduttore. Per entrare nel merito di questo lavoro, va detto, innanzitutto, che trattandosi di una scrittura fondata sostanzialmente su un sistema di sottrazioni, il traduttore deve trovare il modo di non riempire, non disambiguare, non esplicitare, non sciogliere. È un cammino di proibizioni su cui si gioca tutto. Potrà essere una regola che non vale in altri casi – niente come la traduzione letteraria sfugge ai dogmi – ma è un buon consiglio per il traduttore di Lobo Antunes. Mai l’equivalenza o la compensazione è parsa più controproducente, e nei rari casi in cui si rende necessaria, è indispensabile ricorrere a immagini attinte all’universo immaginifico dell’autore. Il paradosso è che la sostanza poetica di questa scrittura inviterebbe a una traduzione creativa, ma la sua insistenza nell’essere prosa chiede al traduttore un’imprescindibile patto di letteralità. Infatti, salvando le distanze fra le rispettive lingue (il mio italiano, lo spagnolo di Mario Merlino e l’inglese di Gregory Rabassa), noi tre traduttori di Lobo Antunes abbiamo tenuto un profilo d’inventività molto basso: la sua prosa è, per così dire, saturata, non lascia spazio per ricreare e tantomeno presenta incoerenze che non siano intenzionali. La difficoltà consiste nel non tradire tale esattezza. Il peggior servizio che si possa fare allo scrittore portoghese è compiere una traduzione normalizzante o didascalica. Si tratta di una prevaricazione in cui è incorsa, come si evince già dai pochi esempi riportati di seguito, la traduttrice francese. Riguardo a tale impostazione, sembra una consuetudine già individuata a suo tempo dal Julio Cortázar traduttore, il quale dichiarava in una lettera “Conosco molto bene i ‘ritocchi’ dei miei colleghi francesi. Sono capaci di far parlare un personaggio di Dostoievski come se fosse Julien Sorel o Rastignac”.
In Italia, Lobo Antunes ha avuto tre voci: quella di Antonio Tabucchi, in collaborazione con Maria José de Lancastre, per il primo romanzo pubblicato nel nostro paese, In culo al mondo (1996); poi di Rita Desti – che traduceva anche José Saramago – e la mia. Per ragioni editoriali, ma pure logiche vista la distanza fra i due autori, Rita Desti ha continuato a tradurre Saramago mentre Lobo Antunes è rimasto interamente affidato a me. Forse sotto il peso di questa responsabilità, ho deciso all’inizio di confrontare le mie traduzioni con quelle in altre lingue per risolvere alcuni dubbi di interpretazione, poi questo confronto ha finito per rivelarsi un consueto e proficuo dialogo virtuale con gli altri traduttori.
Per dimostrare l’affinità elettiva fra Merlino e me, e la differenza rispetto a Geneviève Leibrich, ecco alcuni esempi tratti da Explicação dos pássaros (1981), Acerca de los pájaros (Mondadori, 2008), Spiegazione degli uccelli (Feltrinelli, 2010), Explication des oiseaux (Christian Bourgois, 1991): “Continuei a ler (…) a mesma revista indiferente” (“Seguí leyendo (…) la misma revista indiferente”; “Continuai a leggere (…) la stessa rivista indifferente”; “Je continuais à lire ma revue avec la même indifférence”); “O pai (…) vertia un pingo cuidadoso na cabeça das borboletas” (“El padre (…) echaba una gota precavida en la cabeza de las mariposas”; “Il padre (…) versava una goccia meticolosa sul capino delle farfalle”; “Son père (…) versait soigneusement une goutte sur la tête des papillons”); “Pássaros imóveis e mudos que aguardam a noite na pauta dos ramos, idênticos a semifusas sem som” (“Pájaros inmóviles y mudos que aguardan la noche en la pauta musical de las ramas, idénticos a semifusas sin sonido”; “Uccelli immobili e muti che attendono la notte sullo spartito musicale dei rami, simili a semicrome senza suono”; “Oiseaux immobiles et muets attendent la nuit sur des branches qui faisaient penser à des portées de musique, telles des quadruples croches”); “Uma luz difícil de água de alguindar que as linguas dos capachos pareciam lamber num apetite preguiçoso de bois” (“Una luz indecisa, de agua de barreño que las lenguas de los felpudos parecían lamer con un apetito perezoso de bueyes”; “Una luce reticente, di acqua di catino, che le lingue degli zerbini sembravano leccare con un appetito pigro di buoi”; “Une lumière réticente, d’eau de bassine, que les paillassons longs comme des langues semblaient lécher avec un appétit paresseux de bovins”); “Mas porém todavía comtudo” (“Pero empero sin embargo con todo”; “Ma però tuttavia ciononostante”; “Mais, comble de mal chance”).
vittoria.martinetto@gmail.com
V Martinetto insegna letteratura spagnola all’Università di Torino