Fino ai laghi bianchi del silenzio
recensione di Simone Garino
dal numero di ottobre 2016
Julio Cortázar
L’INSEGUITORE
illustrazioni di José Muñoz
pp.112, € 15
Sur, Roma 2016
“Ogni critico, ahimè, è la triste fine di qualcosa che è cominciato come sapore, come delizia da mordere e da masticare”. È forse un paradosso iniziare la critica di un libro proprio con questa frase. Ma nel caso di L’inseguitore (titolo più felicemente tradotto rispetto a Il persecutore, della prima storica edizione Einaudi), non c’è altro modo. Perché il romanzo breve di Cortázar non è soltanto un libro sul jazz. È anche un libro sull’impraticabilità della critica, sulla sua impossibilità, forse sulla sua inutilità.
Bruno, l’io narrante, il critico, insegue un inevitabile fallimento, fallimento solo apparentemente più sottile, meno tragicamente concreto di quello che viene inseguito dal suo amico e opposto, il sassofonista Johnny Carter. La morte di Johnny, epilogo di una vita vissuta ai limiti, è presente fin dalla prima pagina, ineluttabile. Ma è il critico, pur riscuotendo alla fine il successo economico – scrivendo la biografia del sassofonista – a fallire, in fin dei conti. È proprio Johnny a rimarcarlo all’amico: “Il tuo libro è ottimo, Bruno. Ma ti sei dimenticato di metterci me”.
È paradossalmente destinato al fallimento, nelle pagine di L’inseguitore, anche il tentativo di trovare Charlie Parker. Certo, il sassofonista di Kansas City è per lo scrittore argentino fonte d’ispirazione letteraria, ma, più ancora, costituisce un modello formale. Bird cesellava i suoi assolo seguendo, e stravolgendo allo stesso tempo, le strutture melodico-armoniche del blues, o degli standard. E quasi allo stesso modo Cortázar, profondo conoscitore della biografia di Bird, come se questa fosse uno standard, stravolge la sua struttura. In un gioco alternato di citazioni e variazioni, cambia leggermente i nomi di persona (oltre a Carter/Parker, la moglie Chan diventa Lan, la figlia Pree diventa Bee, la baronessa Nica Rotschild diviene Tica), li lascia a volte significativamente inalterati (Miles Davis, John Lewis) o inserisce personaggi difficilmente identificabili (Art Boucaya è forse la sintesi dei due batteristi Kenny Clarke e Art Blakey, il cui nome musulmano era Ibn Buhaina). Il campo dell’azione è spostato dalla New York del bebop a Parigi, città che Parker, nella sua unica visita, amò moltissimo. È celebre l’aneddoto della rosa rossa, lanciata sul palco della Salle Pleyel nel 1949, che Bird, con un gesto di riconoscenza sui generis, baciò e poi ingoiò intera, spine comprese.
Forse però la più importante variazione sul tema è quella riguardante l’ultima incisione di Johnny Carter. La Amorous del libro non può non rimandare alla celebre Lover Man parkeriana, che fu in realtà incisa per la Dial Records nel luglio del 1946, otto anni prima della scomparsa di Bird. Ross Russell, il discografico, ricorda così quella session: “Charlie non era più un musicista pensante. Quelle erano le dolorose note di un incubo, che venivano da un profondo livello sotterraneo. Tutti noi, nella sala regia, eravamo un po’ imbarazzati, disturbati e profondamente commossi”. La sera stessa, in seguito al tentativo di dare alle fiamme la sua camera d’albergo, Parker fu internato in un ospedale psichiatrico, dove rimase per sei mesi.
Johnny Carter non è quindi Charlie Parker. In lui vediamo riflesse tante altre vite di artisti afroamericani. C’è Parker, certamente; ma c’è anche qualcosa di Bud Powell, o di Lucky Thompson o di Lester Young, forse anche di Charles Mingus. Una sintesi di tante vicende umane. Un po’ come quel Dale Turner, magistralmente interpretato da un altro grande sassofonista, Dexter Gordon, nel film Round Midnight di Bertrand Tavernier.
Ma è possibile un’ulteriore interpretazione: Johnny è la rappresentazione di una forza interna all’autore, della spinta vitale, forse dell’ombra, nel senso inteso da Jung. Bruno e Johnny sono due energie in conflitto, e al contempo indispensabili l’una all’altra, nella mente dell’autore. La vita e l’arte, l’apollineo e il dionisiaco, la persona e l’ombra.
In una celebre canzone (guarda caso, una milonga argentina), Paolo Conte canta di una “verde frontiera tra il suonare e l’amare”, una frontiera “da inseguire fino ai laghi bianchi del silenzio”. La stessa frontiera, forse, che il sax di Charlie Parker e la penna di Julio Cortázar hanno provato a raggiungere.
simone.garino@gmail.com
S Garino è sassofonista e insegnante di musica
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