La dialettica tra virtù e fortuna in versione hippy
recensione di Umberto Rossi
dal numero di aprile 2015
Paul Thomas Anderson
VIZIO DI FORMA
con Joaquin Phoenix, Katherine Waterson, Benicio del Toro
Stati Uniti 2014
Per lungo tempo si è ritenuto che fosse impossibile adattare per il cinema la narrativa di Thomas Pynchon: troppo complessa, labirintica, stratificata, e nel complesso troppo strana, con la sua straniante mescolanza di storicità e immaginario, di passato e presente, adenoidi giganti e cani parlanti. Eppure i suoi romanzi erano densissimi di riferimenti cinematografici: a partire dal suo capolavoro L’arcobaleno della gravità (Rizzoli, 2007), al termine del quale si scopre che la vicenda narrata è in realtà un film con lo stesso titolo; l’epilogo ci lascia nel cinema Orpheus di Los Angeles, dove è stato proiettato, e si chiude con la pellicola che s’inceppa e brucia, e le luci che si accendono in sala (mentre fuori cala l’apocalisse nucleare). Ma in quel monumentale romanzo una parte da leone la gioca anche il cinema tedesco tra le due guerre, con le realizzazioni della mitica società di produzione Ufa (Universum Film Ag), dall’espressionismo degli anni venti ai film nazisti del decennio successivo. Ci sono poi le numerose pellicole citate (puntigliosamente accompagnate dall’anno di uscita nelle sale) in Vineland (Rizzoli, 2000), il quarto romanzo di Pynchon, che interruppe il lungo silenzio seguito alla pubblicazione dell’Arcobaleno. Infine Vizio di forma (Rizzoli, 2013) aveva, per parafrasare il suo titolo originale (Inherent Vice), un carattere filmico inerente; sembrava richiedere implicitamente la propria trasposizione sul grande schermo.
Già nella sua versione letteraria, infatti, Vizio di forma è inconfondibilmente caratterizzato come noir, il più cinematografico dei sottogeneri del giallo. I tratti caratteristici ci sono tutti: la trama ingarbugliata che non si chiarisce completamente neanche nel finale; la dark lady; l’investigatore disincantato e vagamente cinico; il numero di cadaveri rigorosamente superiore a uno; la folla di personaggi spesso ambigui e generalmente infidi; il mondo circostante corrotto, dove non c’è chiara demarcazione tra crimine e legalità; la polizia incompetente o connivente con la malavita (ma con eccezioni); infine la location archetipica del noir, la California dove si muovono i sardonici detective interpretati da Humphery Bogart, ma anche le loro reincarnazioni successive, dal Jake Gittes di Chinatown (1974) al “drugo” di Il grande Lebowski (1998).
Qualche elemento in comune con quest’ultima pellicola il romanzo di Pynchon e il film di Anderson ce l’hanno. Larry “Doc” Sportello, il protagonista, chiamato a investigare sulla sparizione di uno spregiudicato speculatore edilizio, Mickey Wolfmann, è un hippy come Jeff Lebowski; ma mentre il personaggio dei Coen è un superstite degli anni sessanta che si muove, talvolta goffamente, nell’America di Bush padre, Sportello conduce la sua indagine nel 1970, nello scorcio finale dell’epoca d’oro dei figli dei fiori e della psichedelia. Scorcio che sa già di decadenza, di dispersione, di disillusione, se non di autentica repressione: alla Casa Bianca c’è Richard Nixon, e la California è governata da un ex attore di nome Ronald Reagan. L’ondata conservatrice e normalizzatrice sta cominciando a rifluire; l’estate dell’amore (quella del 1967) è già un ricordo.
La vicenda inizia quando una vecchia fiamma di Doc, Shasta (perfettamente interpretata da Katherine Waterston), torna per chiedere al detective di cercare Mickey Wolfmann, l’uomo per il quale lo ha lasciato anni prima. Si avvia così un’indagine che ci porta nei meandri di una Los Angeles ancora scossa dalle gesta della Family di Charles Manson, culminate nella strage di Bel Air. La ricerca di Wolfmann, personaggio ambiguo e inquietante (nonostante ebreo si circonda di nazisti dell’Aryan Brotherhood a fargli da guardie del corpo), si snoda, o forse sarebbe meglio dire si annoda, tra un cadavere e l’altro, in una serie di trame decisamente losche: traffico di eroina, hippy diventati informatori della polizia, una strana organizzazione chiamata Golden Fang (zanna d’oro) o Kryskylodon (che sarebbe la stessa cosa in greco), che però forse non esiste o forse è una nave coinvolta in traffici illeciti, morti che camminano e suonano anche il sassofono, strozzini con la passione delle mazze da baseball, e via così. Del resto, Pynchon è il genio della stranezza, ci ha raccontato la vita di una lampadina di nome Byron che Harold Bloom (nientemeno!) ha letto come parabola gnostica, fa apparire nei suoi romanzi anatre meccaniche e alligatori albini. Non ci si deve allora stupire più di tanto, se “Bigfoot” Bjornsen, della famigerata Lapd (Los Angeles Police Department), quella resa celebre proprio dal cinema, e dipinta a tinte fosche nei romanzi di Ellroy, oltre a fare indagini e cercare caparbiamente di incastrare Doc (col quale però ha uno strano rapporto di odio-amore), compare in serie televisive nei panni di un poliziotto o in spot pubblicitari travestito da hippy. Questo è lo spirito (decisamente sballato) del romanzo, e Anderson lo ha preservato amorevolmente, consapevole che una storia ambientata a Los Angeles nel 1970 non poteva e non doveva essere limpida e lineare, ma narrata in uno stato di coscienza alterato, e possibilmente capace di ingenerare un certo scombussolamento anche negli spettatori. Chiamatela estetica della Cannabis, se volete; oppure ortodossia pynchoniana.
Dovendo trasporre la complicata trama del libro in un film, Anderson ha scelto di semplificare, potando qua e là ma sempre con criterio, anche se certe scelte devono esser state dolorose (è sparita per esempio Arpanet, l’antenata del web che gioca un ruolo importante nel romanzo); eppure, nonostante gli inevitabili tagli, ne risulta una pellicola da due ore e mezza, e comunque labirintica e non priva di vicoli ciechi. Soprattutto ti lascia con una domanda da un milione di dollari (per l’euro era troppo presto): ma l’onnipresente Golden Fang, o Kryskylodon, o Zanna d’oro che dir si voglia, che cos’è? Un’organizzazione segreta che complotta e manipola, gestendo di tutto, dal traffico d’eroina alla speculazione edilizia alla repressione politica? Oppure è veramente solo uno yacht di super-lusso? O una società di dentisti? O è semplicemente una proiezione della paranoia di Doc Sportello, alimentata da un consumo smodato di marijuana e hashish?
La risposta non c’è, ed è giusto che sia così. Non solo perché Pynchon ha sempre lasciato aperta la dialettica (di derivazione machiavellica) tra virtù e fortuna in versione XX secolo, cioè la difficoltà di dire fin dove la storia sia prodotto di un disegno umano, e dove cominci la pura casualità (tema caro allo scrittore americano fin dal suo primo romanzo, V.). Nel lasciare aperta la pratica Golden Fang Pynchon rende omaggio al noir, un genere dove non sempre tutti i delitti trovano un colpevole, e tutti i cadaveri un movente; già Dashiell Hammett, interrogato su un paio di omicidi nel suo romanzo Raccolto rosso, confessava di non avere idea di chi li avesse commessi. Insomma, Pynchon (e Anderson nella sua scia) sa bene che nel mondo notturno e claustrofobico del noir non tutti i conti devono tornare. Ma neanche in quello più vasto della storia con la maiuscola.
Altra interessante scelta registica di Anderson è quella di intercalare all’azione brevi brani del romanzo di Pynchon, ma incarnandoli nella voce di Sortilège, amica e confidente di Doc (interpretata con voce particolarissima – nell’originale – dalla cantautrice Joanna Newsom); così facendo l’opera dello scrittore invisibile si manifesta con una sua voce, un suo corpo e un suo volto. Del resto già all’uscita del romanzo si era diffusa sul web la registrazione della voce di Pynchon stesso che leggeva la pagina iniziale, per cui il concetto di “voce autoriale” si era trovato ad avere una concretissima e inedita applicazione. E pure questa scelta fa parte di un complesso gioco tra visibilità e invisibilità che opera in tutto il film, cosa inevitabile la prima volta che si può “vedere” il mondo proiettato da uno scrittore invisibile.
Infine, è significativo che Doc e Shasta, per quanto entrambi giovani, sembrino aver già molto da rimpiangere: i giorni migliori se li sono lasciati alle spalle. C’è una vena di rimpianto che serpeggia nel film, perché l’estate in tutti i sensi è già passata, il momento magico è trascorso, l’innocenza s’è già macchiata. Di tradimenti, nel film, non ce ne sono pochi, ed è un tema che deriva già dal romanzo. Il vizio inerente (più che di forma) era nella controcultura stessa, nel movimento studentesco, nei freak, nella loro speranza un po’ sconsiderata e confusa di poter smuovere l’America dalle fondamenta, di arrestare la micidiale macchina del complesso militare-industriale, col suo Vietnam di allora e le altre guerre più o meno umanitarie a venire. In ultima analisi, quello di Anderson (e Pynchon) è un noir inerente; ma è anche una strana (ovviamente) elegia hippy, a tratti struggente, a momenti straziante.
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U Rossi insegnante, critico letterario e traduttore