Una desincronizzazione dei sentimenti
recensione di Grazia Paganelli
dal numero di ottobre 2016
François Ozon
FRANTZ
con Pierre Niney e Paula Beer
Francia-Germania 2016
Un melodramma/thriller che cresce su uno strato sottile di umanità, politica e antimilitarismo, che si colora vellutato nel tempo astratto del ricordo o del pensiero e scolora ogni volta che si deve tornare indietro, alla storia, quella del giovane soldato tedesco Frantz, che, morto in una trincea della Grande guerra, rivive nei ricordi e nel dolore di chi ha lasciato: madre, padre, promessa sposa e il suo stesso assassino, che rivela, però, lentamente la sua identità, infrangendo via via una serie di false piste appena accennate, forse per sottolineare le infinite possibilità verso cui può tendere una storia e con essa i suoi protagonisti. In Frantz si rende evidente l’arte della messa in scena di cui François Ozon è maestro. Con eleganza disegna un’intricata rete di sottotesti, appena affioranti, e poi taciuti, trattenuti eppure vibranti. Il lutto e la voglia di vivere, la formazione sentimentale di una giovane (cui viene più volte sottratto l’oggetto del suo amore), l’ossessione soffocata, il conflitto e lo smarrimento del dopoguerra.
L’invenzione del racconto, la moltiplicazione delle ipotesi, il doppio, la circolarità cui è inutile sottrarsi, rappresentano nelle mani del regista francese (che passa con agilità dal tedesco al francese e dal bianco e nero al colore, senza che questo diventi mai un effetto lezioso) materia viva da studiare, come fossero enigmi da risolvere. È questo che fanno tutti in Frantz, dove il tempo sembra essersi fermato, sospeso nell’inconfessato tentativo di vedere ciò che nessuno ha visto, di sapere ciò che nessuno di loro sa.
Si tratta di palpiti di cuore
E quindi l’arrivo in un paese tedesco del giovane francese Adrien, violinista ed ex soldato tormentato da un triste segreto, è il soggetto perfetto per distogliere Anna e i coniugi Hoffmeister dal sommesso e ottuso ripetersi di quello stesso dolore che è diventato la loro vita, da quando il fidanzato e figlio Frantz è stato ucciso. Adrien si finge quello che non è, ma improvvisando come un attore di teatro popolare. Coglie le suggestioni che si annidano in un’espressione del volto, nei silenzi, nelle intonazioni della voce dei suoi interlocutori, e mette in scena il suo personaggio, si plasma via via nell’amico del caro Frantz Hoffmeister, morto in guerra dopo aver scritto una lettera toccante e appassionata alla fidanzata. La sua vita e i suoi racconti, rievocati o inventati, contagiano tutti quelli che sfiorano, a partire dall’uomo che ha ucciso, altrettanto giovane, che in quella trincea muore senza quasi accorgersene. Ma questa è una verità celata a lungo e in modi diversi, tra ciò che si sospetta (ma non è) e ciò che non si penserebbe ma, invece, è accaduto. E intanto la vita s’insinua in questo quadro scolorito. Si tratta di palpiti del cuore, il sangue che si espande sotto la pelle, il corpo che si riappropria della sua fisicità.
Con Frantz il quarantasettenne François Ozon, uno dei più raffinati e versatili registi francesi di oggi, lascia la frizzante e calcolata satira sociale per dedicarsi a un progetto emozionante e intenso, liberamente ispirato al film di Lubitsch L’uomo che ho ucciso (a sua volta tratto dalla piéce teatrale L’Homme que j’ai tué di Maurice Rostand, 1930), decisamente più attento alla tematica pacifista, e, per curiosa coincidenza presentato in concorso alla prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia nel 1932.
Un gioco attento e raffinato sulla messa in scena nello spazio dei personaggi, i loro movimenti pensati con attenzione e talvolta lesinati, fino quasi all’immobilità, i volti silenziosi e assorti, le lacrime, la rabbia. Tutto passa attraverso un racconto nel racconto, che si piega e si ramifica, procede di qualche passo, per poi restare di nuovo sospeso. Saputa la verità (Adrien non è l’amico francese di Frantz, venuto in Germania per piangere sulla sua tomba, ma il soldato che l’ha ucciso e che ora piange se stesso e il suo gesto su quella stessa tomba) Anna sembra uscire dal suo circolo vizioso, ma poi vi rientra, in un altro contesto, ugualmente destinato ad avvolgerla. Frantz è un film sull’assenza e sull’improvvisa interruzione dei gesti, che il cinema ha la capacità di evocare. Un film sulla menzogna e sui segreti, sulla difficile gestione dei sentimenti nella confusa retorica da dopoguerra, tra vincitori e vinti, popoli feriti e offesi, che sembrano guardarsi allo specchio, somigliandosi senza potersi riconoscere. La Prima guerra mondiale in un film francese che, però, adotta come principale il punto di vista tedesco, di chi ha subito il conflitto e continua a percepirlo sulle spalle, nel cuore e nella memoria. Un film sulla riconciliazione, infine, vista secondo una prospettiva capovolta e contraria, ma efficace e irresistibile nel suo fluire necessario.
Tutto può accadere
Ozon è abile nello scivolamento dei sensi, nel reinventare le storie mentre le racconta. Basti pensare a Nella casa (2012), con il continuo farsi e rifarsi di azioni e situazioni, o a Swimming Pool (2003), dove il potere dell’immaginazione stava tra le righe di un romanzo che, appunto, prendeva forma. L’impressione, avvalorata, film dopo film, è che nel cinema di Ozon la storia sia un pretesto per mostrare il meccanismo stesso del racconto e le innumerevoli vite che esso può avere dentro di sé. Come fosse corpo vivente e cangiante, misterioso perché custode di imprevedibili svolte. «Tutto può accadere all’uscita di un cinema» si diceva in un film di Resnais. In Ozon, invece, tutto può accadere nel segreto svolgersi di una storia, che nasce nel pensiero di chi la racconta, ma può trasformarsi in mano a chi la agisce. Per questo la menzogna è lo stratagemma centrale, che sorprende e fa soffrire Anna, per diventare poi il suo stesso strumento di rinascita. «Inconsciamente – spiega Ozon – parecchie mie ossessioni sono presenti. Ma affrontarle in un’altra lingua con altri attori, in luoghi altri, fuori dalla Francia, mi ha obbligato a rinnovarli e spero che prendano una nuova forza, una nuova dimensione. C’erano tante sfide eccitanti da raccogliere in questo film, non avevo mai girato in lingua tedesca, con scene di guerra. Una delle cose più importanti per me era raccontare questa storia dal punto di vista tedesco, dalla parte dei perdenti, di chi è umiliato dal trattato di Versailles e raccontare che questa Germania è anche il ‘terriccio’ di un nazionalismo che nasce».
Nel loro incontro, Adrien e Anna diventano protagonisti di una sorta di scambio reciproco, dopo un primo e veloce gioco di specchi. L’uno passa la menzogna sulle labbra dell’altra, liberandosi e vincolandosi al tempo stesso. Lui, che ha letteralmente messo in scena le sue bugie, se ne libera affidandole a lei. Sarà compito di Anna gestirle e cambiarle di segno, trasformandole in opportunità piuttosto che in rimpianto. E così, mentre Adrien era giunto in Germania sommerso dai sensi di colpa, Anna arriva a Parigi in cerca di una vita finalmente da vivere. Troverà altre bugie, ne fuggirà, per poi trasformarle nell’inizio di un nuovo racconto. Ecco mutuato su di lei il ruolo che fu di Adrien. Il doppio viaggio tra Francia e Germania non è quindi soltanto un abile meccanismo narrativo per mostrare la desolazione di due paesi sopravvissuti e feriti, ma anche la traiettoria di non ritorno di un uomo e una donna controcorrente. Entrambi, non a caso, restano affascinati dal quadro di Manet Le Suicidé, ma anche imprigionati in un desiderio inespresso e totalmente contrapposto. «Ciò che è bello in Anna è il suo accecamento – spiega ancora Ozon – sa cosa ha fatto Adrien ma la sua reale sofferenza è di non accettare il suo desiderio per lui e quando finalmente lo va a raggiungere in Francia è perché vuole credere nel loro amore, malgrado tutto. Adrien invece non sa dove cercare il suo desiderio. Avevo voglia di giocare sulle tematiche classiche del melodramma, il senso di colpa e il perdono, per poi deviare su una desincronizzazione dei sentimenti».
g.paganelli@museodelcinema.it
G Paganelli è critico cinematografico e programmatrice del Museo nazionale del cinema