Svegliare i sonnambuli
Nel numero di giugno la scelta precisa è quella di schierarsi dal lato dei “lettori forti”, quelli che rivolgono il loro sguardo alle pagine dei classici. E i classici che vengono nominati su pagine diverse sembrano ritornare e richiamarsi in un gioco divertente di rimandi. Quando Agathe Novak-Lechevalier, intervistando Emmanuel Carrère, gli chiede: “Lei ha parlato di Flaubert come di un autore che le è profondamente nocivo; ce ne sono altri che invece le sono salutari?”, lo scrittore risponde: “Per fortuna ce ne sono, anzi gli autori salutari sono più numerosi di quelli nocivi. Dickens, per esempio. Non solo David Copperfield o Grandi speranze fanno parte dei libri che amo di più al mondo, ma è proprio Dickens che mi fa bene. È soccorrevole, generoso più di quanto si possa dire. Anche a proposito di lui c’è una storia che adoro. Dickens stava scrivendo un romanzo che usciva come feuilleton, a puntate, non ricordo quale. Quando usciva un feuilleton di Dickens, era come oggi quando esce un nuovo Harry Potter: la gente faceva la coda davanti alle edicole dalle cinque del mattino”. E più avanti Carrère spiega che cosa gli consente di valutare, scrivendo, se “l’io suona falso”: “Credo di avere un buon orecchio, per i miei scritti e anche per quelli degli altri. Non glielo saprei spiegare: in realtà, è quasi una questione morale. Una frase – non soltanto in termini flaubertiani di eufonia, ma anche in rapporto a quel che cerca di raccontare – suona giusta o stonata? Per me è il criterio essenziale, anzi, l’unico. E, per strano che possa sembrare, ho l’impressione di accorgermi sempre se una cosa viene dal profondo, o se è una cosa detta così per dire, che non ha radici, che non è davvero sentita: quelle cose che uno scrive per fare il furbo, o perché è uno scrittore e allora bisogna pur che scriva qualcosa, o per far funzionare in qualche modo la narrazione. Come lettore, ho l’impressione di accorgermene, è una questione di orecchio, ma so che del mio orecchio, su questo, mi posso fidare”.
Fidarsi del proprio orecchio è però una pratica di mestiere che discende necessariamente dalla lettura e dall’assimilazione degli autori classici, come ci sembra di capire leggendo il Segnale in cui Fausto Ciompi auspica un “ritorno a Conrad”: “Per il vecchio Karamazov di Dostoevskij non esistevano donne brutte. Con la narrativa di Conrad funziona un po’ allo stesso modo. Alla fine ci si rassegna al fatto che, fra le sue opere, è arduo trovarne una davvero priva di interesse. Lo leggi e rileggi, ti affezioni a un novero comunque ampio di piccoli o grandi capolavori, ti costruisci un tuo canone pensando di poter mettere da parte almeno il raccontino scritto per campare, il romanzo licenziato frettolosamente perché le scadenze incombono. Poi, invariabilmente, qualcosa ti costringe a cambiare idea. Talvolta, a scalfire le certezze dell’aficionado intervengono un’interpretazione o una traduzione particolarmente originali, che ti inducono a riconsiderare un testo fin troppo frequentato o un’opera ingiustamente accantonata. Con buona pace degli apocalittici alla Steiner, che vorrebbero disintermediare la comunicazione letteraria (il lettore solo davanti al testo, al macero le chiacchiere degli interpreti), questo è del resto l’esito forse più alto del lavoro del critico, ma, per altro verso, anche del sempre trascurato traduttore: indurti a leggere i testi facendo leva su un’interpretazione forte”.
Seguire un canone e anche rafforzarlo, cambiare strada, con l’ausilio di interpretazioni critiche convincenti e di nuove traduzioni. Un punto di vista molto interessante, che ci fa correre, attraverso le pagine dell’ “Indice”, alla lettura di Enrica Villari del testo di Chesterton sui vittoriani in cui riemerge (manco a dirlo) il nome di Dickens: “Gilbert Keith Chesterton, in uno dei tanti scritti su Dickens, aveva sostenuto che non era vero che lo spirito puritano aveva talmente impregnato di sé gli inglesi nel Seicento da renderli, come si ripete di continuo, ‘un popolo incurabilmente puritano’. I puritani vinsero sì la guerra civile ma non trasformarono gli inglesi, i quali non furono mai quintessenzialmente tali quanto all’epoca di Shakespeare, ovvero prima della comparsa dei puritani. ‘Una moralità nuova, fredda e illiberale’ iniziò ad affermarsi secondo Chesterton solo ‘all’epoca della regina Vittoria, non di Elisabetta’, e riteneva dunque molto probabile che la visione degli storici a venire sarebbe stata che ‘i puritani trionfarono in realtà per la prima volta solo nel ventesimo secolo, e che Dickens fu l’ultima voce dell’Inghilterra allegra’. Questa visione della cultura inglese dominata dall’Inghilterra ‘latina’ di Chaucer, partecipe dello spirito di un medioevo europeo non ancora turbato dalla riforma, quella ‘allegra vecchia Inghilterra’ che il puritanesimo arrivato dal mondo nordico insidiò per quasi un paio di secoli finché essa rivisse possente nel genio di Dickens, è fondamentale per intendere il libro di Chesterton sui vittoriani”.
Un esercizio di riscoperta dei classici come chiave per comprendere il mondo e la storia, seguendo l’invito di un altro recensore, Domenico Calcaterra, che, nell’ambito della letteratura italiana, ci guida alla rilettura dell’opera di Grazia Deledda, premio nobel per la letteratura e scrittrice spesso trascurata: “Lo sconfinare dell’elemento socioantropologico nell’esistenziale è ciò che veramente dà il polso della completa modernità e attualità dell’opera della scrittrice di Nuoro. Che si tratti dell’ambiente agro-pastorale sardo o dell’interno borghese cittadino (come la Roma del già citato Nel deserto), i personaggi del mondo di Deledda sono vittime di una duplice invincibile coercizione: quella dell’ambiente cui appartengono (e il cui codice e il complesso sistema di divieti non ammette profanazione); dall’altra, quel rigore autodistruttivo che risiede e trova ragione nel vulnus di una vita avvertita come dolore, sconfitta a prescindere, perdita secca. La guerra è in noi, scriverà a Marino Moretti (in una lettera datata Viareggio, 7 agosto 1915), a puntare il dito contro un dato che non può che essere, nella sensibilità della scrittrice, sovrastorico: ‘La vita nostra è guerra; se forse questa guerra immensa che tutti ormai vogliamo combattere, è la conseguenza della guerra interiore che ci torce tutti – da anni e anni, – guerra di coscienza, di male e di bene, di aspirazione verso una gioia che non esiste, di desiderio di grandezza, di ebbrezza, di pazzia. E poi tutto passerà, per tutto ricominciare: come fa il mare con le sue calme e le sue tempeste’”.
Se la “vita è guerra”, come ci spiega Deledda, allora dobbiamo davvero leggere il libro di Jenny Erpenbeck, Voci del verbo andare. Nell’intervista rilasciata ad Anna Chiarloni la scrittrice dichiara, dando voce ai profughi in un regime di perdurante sfruttamento capitalista in Africa: “Purtroppo la globalizzazione va sempre in un verso solo: globale diventa il profitto delle grandi multinazionali che in tutto il mondo viene fatto a spese delle popolazioni locali. E alla gente che proviene da quei paesi, obbligata a fuggire a causa dello sfruttamento delle loro terre e proprio a queste persone noi neghiamo asilo! Ma l’anelito verso l’uguaglianza è irresistibile, ci vorrà tempo prima che si realizzi e in certe situazioni potrebbe un comportare l’uso della violenza. Non so prevedere quando tutto ciò potrebbe verificarsi. Ma certo non tutti i poveri del mondo continueranno a tacere come agnelli di fronte all’esclusione perenne, non dico dal benessere ma almeno da quel minimo necessario per vivere”.
Una finestra sul presente che passa attraverso un esame del governo di Trump secondo Andrea Mattacheo o l’analisi degli inganni di internet messi al centro del segnale di Dario Guarascio intitolato significativamente Mai fidarsi di Google: “La gestazione delle tecnologie digitali oggi più diffuse è avvenuta in una fase storica caratterizzata da acute diseguaglianze economiche e sociali e da una crescente atomizzazione delle relazioni, personali e lavorative. Il consolidamento di queste tecnologie sembra approfondire queste tendenze con conseguenze i cui tratti è ancora difficile delineare. La preminenza di un regime di accumulazione basato sull’estrazione di dati personali e, in ultima analisi, sulla sorveglianza pone seri interrogativi circa la compatibilità di democrazia e proprietà privata di tecnologie che consentono l’estrazione, l’archiviazione e la vendita di dati personali”.
Ci sono risposte credibili per salvaguardare la libertà dell’individuo in un clima di democrazia rifondata? È la domanda a cui cercano di rispondere, in modo quasi paradossale, Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, autori del testo che Davide Lovisolo ha scelto di recensire per il “Primo piano”, Il mondo ai tempi dei quanti: “Gli autori partono dalla constatazione che la sinistra tradizionale non sta combattendo i mali, ma lenendo i danni (ci riesce ben poco); propongono la necessità di una democrazia radicata nel territorio e di una ricostruzione della rappresentanza; affermano che ciò non si può fare con il personale politico della sconfitta; fanno giustamente risalire i guasti alla professionalizzazione della politica avvenuta a partire dagli anni ottanta. Sembrano però fare riferimento a un socialismo democratico che, nelle sue forme concrete, non pare tanto in salute. La parola d’ordine è ‘svegliare i sonnambuli’. Sì, ma come? Curiosamente, una parziale risposta a queste domande più ‘politiche’ viene dalla postfazione di Giorgio Galli: contributo non rilevante nella prospettiva di un libro importante e utile come questo, in quanto presenta una serie di proposte alquanto opinabili. Una per tutte, la più forte: siccome il potere politico globale è esercitato nei fatti dai consigli di amministrazione di circa 500 multinazionali, la proposta per una nuova rappresentanza democratica è l’elezione a suffragio universale, da parte di 7 miliardi di individui, dei Ceo (Chief Executive Officer ossia amministratori delegati) o di una parte di questi consigli. Mah. Sarebbe come proporre l’elezione diretta di Babbo Natale da parte di un paio di miliardi di bambini del mondo: pensate che festa!”.
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