Amare il vintage, correggere le asimmetrie e prendere a modello i batteri
“C’è poco da fare: nonostante in ognuno di noi possa insinuarsi una certa, legittima, sazietà nel sentire ancora celebrare il nome della cantante greca (magari dimenticandone tanti altri che servirono più a lungo di lei e con altrettanta dedizione l’arte del canto), questa voce, a quarant’anni dalla scomparsa (16 settembre 1977), impressiona e scuote l’animo di chi la ascolta, dal neofita al collezionista più smaliziato, come il richiamo, notturno e inquietante, di un altro mondo, cui pure noi sentiamo misteriosamente di appartenere”. Queste le parole con cui Gabriele Bucchi, in un Segnale sulla divinizzazione della Callas, parla con nostalgia di una cantante e di un mondo scomparso ma ormai elevato a funzione di “mito”. Eppure, poco più avanti, leggendo il Segnale di Gabriele Balbi, scopriamo che il gusto del vintage investe curiosamente anche la tecnologia che noi immaginiamo proiettata verso “sorti magnifiche” e soprattutto “progressive”: “La storica produttrice di telefoni mobili Nokia ha recentemente annunciato che tornerà a produrre il modello 3310. Si tratta di un telefonino – splendido vezzeggiativo italiano che testimonia quanto il mezzo sia entrato nelle abitudini quotidiane – che ha senza dubbio fatto la storia del settore. Nei paesi occidentali, infatti, il telefono mobile è diventato un fenomeno di massa tra la fine degli anni novanta del Novecento e i primi anni Duemila (…). Perché in un’epoca di smartphone riproporre un modello ormai desueto, anche se non completamente abbandonato, e più in generale perché dotarsi di uno strumento di comunicazione meno evoluto rispetto a quanto disponibile sul mercato attuale? Questo articolo vuole rispondere proprio a questa domanda proponendo di leggere il ritorno del 3310 alla luce di alcune teorie e contributi scientifici nell’ambito dei media studies”. Un interessantissimo articolo su un prodotto che “oggi rinasce come mezzo volutamente retrò, con un patrimonio nostalgico e di brand già notevole, e come un’alternativa comunicativamente meno intensa rispetto agli smartphone”.
Un filo rosso di nostalgia che corre dalla Callas al Nokia 3300 e che si acuisce leggendo la bella intervista di Alessandro Stillo a Predrag Matvejevic (pubblicata ora, poco dopo la sua morte). Questa volta si tratta della nostalgia per una lucidità di analisi che ci sembra in via di esaurimento. Afferma, fra l’altro Matvejevic: “Il Mediterraneo ha affrontato la modernità in ritardo e non ha conosciuto la laicità lungo tutti i suoi bordi ma, per procedere ad un esame critico di questi fatti, occorre prima liberarsi di una zavorra ingombrante. Ciascuna delle coste conosce le sue contraddizioni, che non cessano di riflettersi sul resto del mare e su altri spazi, talora lontani. Occorre ripensare il concetto di periferia e centro, che oggi sembra sorpassato, gli antichi rapporti di distanza e di prossimità, le relazioni delle simmetrie a fronte delle asimmetrie, perché queste cose non si possono più osservare solo in termini dimensionali, ma vanno considerate anche in termini di valori”.
E i temi affrontati da Matvejevic, relativi all’asimmetria e alle differenze all’interno della società, sono quelli che Elisabetta Grande affronta nel suo libro Guai ai poveri, che analizza, come spiega il sottotitolo, “la faccia triste dell’America”. Scrive Antonio Soggia, recensendo il libro: “Il volume non si sofferma sui concreti rapporti di forza tra le classi, i generi e i gruppi razziali, si concentra piuttosto su quel particolare prodotto di cultura che è ‘la politica del diritto’, individuata quale motore essenziale delle dinamiche della povertà e della ricchezza negli Stati Uniti. Il sistema giuridico in tutte le sue articolazioni – i trattati internazionali, la legislazione federale e statale, le ordinanze cittadine e la giurisprudenza, assai importante in un paese di common law – ha ‘un ruolo fondamentale sia nel produrre i poveri che nel perseguitarli’. Questa è la tesi centrale del libro”.
Nella sezione del “libro del mese” si va alla scoperta delle radici del capitalismo e delle “asimmetrie estreme” che lo contraddistingue, con la recensione all’Impero del cotone di Sven Beckert e un’interessante intervista all’autore a cura di Carlo Fumian: “L’espropriazione delle terre delle popolazioni indigene, per coltivare il cotone, ebbe un ruolo molto rilevante. E possiamo continuare con lo sfruttamento del lavoro schiavile, il colonialismo, il commercio portato con le armi, le compagnie privilegiate che godevano di monopoli garantiti dallo stato. Ho cercato di trovare un modo per definire specificamente quella forma di capitalismo, ed è così che è venuto fuori il termine war capitalism. Quel ‘capitalismo di guerra’ è ovviamente molto diverso dal capitalismo industriale che meglio identifichiamo come moderno, ma sostengo anche che il capitalismo che conosciamo oggi è venuto fuori da quel mondo precedente”.
Del resto l’uomo sembra uno straordinario motore ideologico nella creazione di asimmetrie difficilmente giustificabili, anche nel rapporto con il mondo animale, come spiega Federico Paolini: “Nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo, Francis Fukuyama ha criticato la passione egualitaria che nega l’esistenza di differenze significative tra gli esseri umani e gli animali superiori come un’ipocrisia prodotta dall’ambientalismo antropocentrico che vuole ‘proteggere i piccoli di foche ed altri animali perché noi umani amiamo averli intorno’. A suo avviso, se non esiste una base razionale per affermare che gli esseri umani hanno una dignità superiore a quella della natura, allora non c’è nemmeno una base razionale per affermare che una parte della natura ha una dignità superiore ad un’altra parte come, ad esempio, ai batteri e ai virus (compresi quelli pericolosi per l’uomo). Per Fukuyama, quindi, la ‘frangia estremistica del movimento ambientalista’ è molto più coerente poiché crede che la ‘natura come tale’ abbia diritti uguali a quelli dell’uomo”.
Non resta che sperare in un’evoluzione dell’uomo nella direzione di una maggiore empatia e rispetto per l’universo: di evoluzione si parla, in questo numero dell’“Indice”, nelle recensioni alla Storia naturale della morale umana di Tomasello e a quella sul libro di Léo Grasset dal suggestivo titolo Il torcicollo della giraffa. E anche la nostra centralità nell’economia del sistema terra può essere fortemente messo in discussione dalle nuove scoperte sul genoma che sono al centro del libro di Anna Meldolesi sulla nuova metodologia CRISPR/Cas9, E l’uomo creò l’uomo: “Nel primo capitolo, Hello CRISPR!, Meldolesi ce ne spiega bene il funzionamento, le potenzialità e soprattutto l’origine. Il più biotecnologico dei metodi per cambiare il genoma di tutti gli organismi viventi è stato scoperto studiando l’interazione tra virus e batteri, proprio come è accaduto all’alba della biologia molecolare, quando si studiavano i batteriofagi, per capire cosa è la vita, pura ricerca di base. Citando S. J. Gould sull’importanza dei batteri e il loro ruolo nell’evoluzione della vita sulla terra, il libro ci guida tra le moderne tecnologie per modificare il genoma e svela il perché di questo acronimo molto complesso”.
Rivalutiamo quindi batteri e virus e quindi anche il “piccolo”, anche nella forma del cucciolo dell’uomo adulto: è l’invito del bellissimo speciale di 24 pagine che è al centro di questo numero dell’Indice. Un lavoro complesso e ricco, con sezioni che vanno da quella “Zero-Sei” a quella sul “premio Strega Ragazze e Ragazzi”, alle pagine sul “Bologna Ragazzi Award”, sui migranti, sulle librerie, sull’arte, sulla legalità. Un osservatorio unico che consente di conoscere tutto ciò che bolle in pentola nell’editoria e nelle iniziative per i ragazzi (L’Indice dei Libri per Ragazzi).
E poi pagine, ancora, su narratori italiani come Desiati, Scianna, Minervino, Arminio, Piperno e autori stranieri come Viet Than Nguyen, Hogg, Groff e Taylor. E la bella recensione di Giame Alonge al film Jackie di Pablo Larrain.
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