Credere in un unico rosso
recensione di Francesco Rognoni
Dagli archivi: 2001 – anno XVIII – n. 11
Orhan Pamuk
IL MIO NOME È ROSSO
ed. orig. 1998, trad. dal turco di Maria Bertolini e Pernia Gezgin
pp. 450, Lit 38.000
Einaudi, Torino 2001
Benché il protagonista, o meglio uno dei vari protagonisti dell’affollato romanzo del prolifico Orhan Pamuk (1952), porti il nome di Nero, il “rosso” che si dichiara nel titolo non è un altro personaggio, ma proprio il colore – “il tocco dell’occhio, la musica dei sordi, un grido nel buio” – che parla in prima persona: un po’ come se nel famoso capitolo di Moby Dick sulla bianchezza della balena Melville non s’affidasse alle circonlocuzioni del saggio, bensì attaccasse impavido: “Chiamatemi Bianco…” e via di questo passo. Perché in II mio nome è rosso il romanziere turco fa parlare tutto e tutti, compresi alberi, monete, cani e cavalli, Satana (“Credo a me stesso e spesso non bado a quel che si dice sul mio conto”), la Morte, una testa mozzata e anche un paio di cadaveri già putrefatti o assunti nel cielo rosso di Allah. Dal fondo del pozzo dove giace da quattro giorni, il primo di questi morti ammazzati, un miniaturista del Sultano, avverte subito che qui non si tratterà di semplice thriller: scoprire il colpevole non sarà tutto, perché “dietro la mia morte c’è uno scandaloso complotto contro la nostra religione, le nostre tradizioni, contro il nostro modo di vedere il mondo. Aprite gli occhi, sappiate che a uccidermi sono stati i nemici della vita in cui credete e vivete, i nemici dell’Islam, e che un giorno potrebbero uccidere anche voi”.
Ed effettivamente l’indagine in cui sarà impegnato Nero per conto di Zio Effendi lo condurrà fin nelle stanze segrete del palazzo del Sultano, dove ad affrontarsi senza esclusione di colpi non sono semplici individui, ma due diverse concezioni del mondo – siamo a Istanbul, verso la fine del Cinquecento -, modernità e tradizione, apertura alle suggestioni del realismo occidentale e cieca fedeltà alle maniere dell’arte islamica, stile personale e immutabile impersonalità. L’avventura superficiale è a lieto fine, con la scoperta e punizione dell’assassino, e la conquista definitiva, da parte di Nero, della bella cugina Şekure: la quale ha sposato sì il nostro eroe a metà libro, ma gli fa spasimare i suoi favori fino all’ultimo capitolo.
Resta piuttosto irrisolto – e lo è anche storicamente – il più profondo e ampio conflitto fra nuovo realismo psicologico e rappresentazione tradizionale, ritratto e stilizzazione. Un conflitto del quale si innerva lo stesso romanzo di Pamuk, che è tutto un proliferare di storie entro la storia, parabole, esempi, emblemi, leggende sciorinate con energia quasi spossante, che incrostano e un po’ soffocano la vicenda principale: così che Nero, Şekùre e gli altri vari personaggi sono tutti un po’ uguali proprio in virtù di tanta variegatezza, e del loro destino personale ci importa assai poco. “L’ombra non può che essere una scusa. Esiste un unico rosso e bisogna credere solo in quello”, osserva un miniaturista tradizionalista, di quelli che temono e disprezzano l’influenza dell’arte europea su quella islamica. Ma per quanto Pamuk non condivida affatto questa intransigenza, il suo romanzo soffre ancora – mi sembra – di una certa assenza di chiaroscuri: e a noi, schiacciati dal peso delle sue dorature, viene una gran voglia di andarci a rileggere le delicate cronache di Neri Pozza, Le storie veneziane (Mondadori, 1977) e Le luci della peste (Rizzoli, 1982), dove si raccontano episodi della vita di quei “maestri veneziani” che qui mettono così in crisi il senso estetico dei pittori del Sultano ottomano.
F. Rognoni insegna lingua e letteratura inglese all’Università Cattolica di Brescia
rognonif@libero.it